Il romanzo-reportage di Ben Lawrence “La città delle spine”, viaggio nel campo rifugiati più grande del mondo: una città non-luogo che non appare in nessuna mappa, madre e secondino, prigione mentale prima che fisica
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 26 maggio 2018, Nena News – Oltre 65 milioni di profughi in tutto il mondo: l’anno 2017 ha segnato un nuovo record. Mai si era raggiunto un numero simile di rifugiati, nemmeno durante le due guerre mondiali che devastarono l’Europa il secolo scorso. Nei numeri è facile perdersi, il rifugiato perde volto, storia, voce. Diviene un punto insignificante in una massa indistinta, privo di personalità, disperazione, speranze e sogni.
A Dadaab – un nome che pare una cantilena, il campo profughi più grande del pianeta – la massa indistinta è realtà quotidiana per chi accoglie stancamente (l’Onu e le organizzazioni internazionali), per chi finanzia a singhiozzo (i governi occidentali), per chi ci vive (profughi somali, eritrei, sudanesi, kenyani poveri) e per chi tenta di distruggerlo (Nairobi). Difficile dire quante persone ci siano dentro, tra le tende, le baracche di alluminio e quelle di paglia: mezzo milione secondo le stime, costantemente aumentate dai primi anni Novanta quando nacque nel nord del Kenya, al confine con la Somalia.
Cresciuto in modo disordinato, rifugio da chi fugge da guerre e occupazioni militari e dagli attentati di al-Shaabab, si è trasformato in una città con le sue regole, il suo mercato, i suoi servizi, i campi da calcio, le diatribe e i conflitti sociali, economici, tribali. Un non-luogo che stenta a farsi luogo e che Ben Rawlence racconta nel suo libro La città delle spine, dopo anni di ricerche in una metropoli che non appare in nessuna mappa.
Il testo di Rawlence (edito da Brioschi, pp. 442, euro 18) che a Dadaab ha trascorso otto anni, è un reportage che si fa romanzo, o un romanzo che sfocia nel reportage. Attraverso le vite di nove rifugiati, ognuno arrivato in un periodo diverso e per una ragione diversa, l’autore spiega Dadaab. Vite che si intrecciano, si sfiorano o non si incontrano mai e che narrano la lunga vita del campo, dalla sua nascita a oggi. Ogni storia è specchio della condizione di mezzo milione di persone in cui la totale dipendenza e il mancato controllo sulla propria vita si traducono nel buufis, parola coniata a Dadaab a indicare lo struggente desiderio di andarsene, e nella convinzione radicata di essere le cavie di un enorme esperimento di ingegneria sociale.
Rawlence narra con delicatezza e senza alcuna esagerazione (non ce ne sarebbe bisogno) le tante sfide per la sopravvivenza – sia fisica che psicologica – tra razioni prestabilite dalle Nazioni Unite (a ogni rifugiato spettano 2241 calorie al giorno, 565 grammi di cibo), lavoretti per guadagnare qualche centinaio di scellini in più, matrimoni in crisi, carestie letali, le regole e le punizioni imposte da una società conservatrice e religiosa. Ognuno di loro reagisce a modo suo: chi come Tawane gettandosi a capofitto nel lavoro per l’Onu, chi come Muna provando a dimenticare masticando khat, chi come Nisho spaccandosi la schiena come facchino.
Alla fine quel che resta è Dadaab, madre e secondino, prigione prima mentale che fisica. E restano le vite di mezzo milione di profughi a cui La città delle spine dà un volto e una storia rendendoli per qualche ora, almeno nella mente del lettore, meno invisibili e dunque meno prigionieri.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati
Lei insieme al suo collega Del Grande, ai fini di accontentare qualcuno dice solo bugie.
Nel campo profughi di Dadaab non ci sono eritrei, ma migliaia e migliaia etiopi scappati dall’Etiopia soltanto perchè appartengono a un etnia diversa da quella al potere.
Ai fini seguire la moda del non dire che in campo profughi in Etiopia ci sono gli stessi poveri etiopi di origine del Tigrai ( etnia al potere in Etiopia ), ha voluto dire che anche nel campo profugo in Kenia ci sono i profughi dell’Eritrea. In un art. del 11 agosto 2017, ha voluto evidenziare delle bugie che riguardano coloro che da Gibuti vanno nello Yemen, dicendo 55 mila fra eritrei e somali, mentre anche lo OIM sa’ perfettamente che sono etiopi.
Ma Lei è mai stata in questi campi profughi ? Se è stata ha accertato se questi profughi, circa la loro origine dicono la verità o meno ? Come fa’ a differenziare un eritreo/a da un etiope ecc ? Perchè deve prendere in giro i lettori di Manifesto. VERGOGNA.