La rappresentazione delle persone nere ha, nel migliore dei casi, un ruolo insignificante nella cultura mainstream del Medio Oriente, a partire dai film fino ad arrivare ai social media
di Joseph Fahim* Middle East Eye
* (Traduzione di Valentina Timpani)
Roma, 6 luglio 2020, Nena News – A settembre del 2005, quasi 2500 richiedenti asilo sudanesi in Egitto cominciarono a protestare a causa delle condizioni indigenti in cui si trovavano. Uomini, donne e bambini si accamparono nei giardini di piazza Mustafa Mahmoud, al Cairo, nel quartiere borghese di El Mohandessin.
Ignorati dalle autorità, facevano semplici richieste: diritti ai rifugiati; o la possibilità di essere ricollocati in un altro paese. Non vennero presi in considerazione e così si rifiutarono di liberare i giardini.
Il 30 dicembre, la polizia irruppe violentemente nella piazza, sgomberandola. Alla fine del raid, secondo i rapporti ufficiali, aveva ucciso almeno venti cittadini sudanesi disarmati, tra cui donne e bambini. Altre fonti riportano un numero tre volte – o più – superiore. Il massacro non fece notizia tra il pubblico e i media egiziani, e fu presto dimenticato.
Una settimana dopo, mi trovavo a passeggiare nel ricco quartiere di Hadayek El Qubba, che ospitava una scuola per rifugiati sudanesi. Molti adolescenti stavano tornando a casa a fine giornata. A quel punto un gruppo di giovani egiziani gli si coalizzò contro, per poi isolare il più piccolo tra loro. Lo separarono dal resto del gruppo, e mentre lo circondavano iniziarono contro di lui un’invettiva a base di scimmiottamenti razzisti.
C’era una parola con la quale i teppisti egiziani continuavano a chiamarlo: “Othmana”, il femminile di “Othman”, un nome usato per diversi decenni in contesti razzisti grazie al cinema egiziano.
Come sono nate le caricature razziste
Questi incidenti tornano alla mente sulla scia dell’uccisione per mano della polizia di George Floyd a Minneapolis, e delle conseguenti proteste e critiche avvenute in tutto il mondo, compresi Medio Oriente e Nord Africa.
Il modo in cui i gruppi di una società percepiscono l’un l’altro è dovuto a diversi fattori, inclusi l’educazione e le esperienze individuali. Un altro fattore è l’influenza da parte dei media e del mondo dello spettacolo. È stato ironico il modo in cui alcune parti della società egiziana abbiano provato a mostrare solidarietà, specialmente online, agli afro americani e al movimento #BlackLivesMatter.
Ciò perché nessuna altra etnia è stata più denigrata e ridicolizzata degli africani nel mondo dello spettacolo arabo, che è dominato dall’industria egiziana in quanto nazione più popolosa della zona, a partire dai film in lingua araba degli anni ‘30 fino ai kolossal odierni.
Prima che i rifugiati sudanesi arrivassero in Egitto in seguito alle guerre civili nel loro paese, la popolazione nera in Egitto era principalmente composta da nubiani del nord del Sudan e del sud dell’Egitto, che si erano stanziati da molto tempo sulle rive del Nilo superiore. Si stimava che costituissero circa il tre percento della popolazione nazionale nel 2015.
Sin dai primi giorni di vita del cinema egiziano degli anni ‘30, ai nubiani venivano assegnati ruoli di subordinati, come quelli di servi o concierge, che erano invisibili o messi lì apposta per essere presi in giro; persone umili e senza risorse, poco intelligenti, poco talentuose e con un ristretto raggio d’azione.
Come ha scritto Viola Shafik in Arab Cinema: History & Cultural Identity nel 1998: “Le due lingue nubiane non sono state usate nemmeno in un film. Anche da un punto di vista visivo la minoranza nubiana è stata rappresentata in modo sbagliato”. Per decenni, qualsiasi personaggio maschile nero veniva sempre chiamato “Othman”, una comparsa la cui unica funzione era quella di sostenere i protagonisti dalla pelle più chiara.
“El-Kassar ha posizionato il personaggio nero all’interno della famiglia nazionale”, scrive Alon Tam, dell’University of Pennsylvania, “proponendolo come una figura tipicamente egiziana. Allo stesso tempo, ne ha svalutato il ruolo caratterizzandone l’accento e il colore della pelle come inferiori, e associandolo ad altri egiziani ‘stranieri’”.
Una rara eccezione è stata quella del celebre personaggio di Othman Abdel-Basset, partorito dalla mente del comico Ali El-Kassar (1887-1957), dal 1935 al 1944. Lo stesso El-Kassar non era nubiano: nato al Cairo, si era unito alla comunità nubiana della città prima di inventarne una caricatura razziale, compresa di accento bizzarro, linguaggio del corpo introverso e atteggiamento riservato.
Othman Abdel-Basset divenne il personaggio nero più conosciuto nella cultura pop egiziana, fornendo ai nubiani uno spettro di emozioni raro per lo schermo arabo. Fu uno dei pochi – se non l’unico – esempi di un personaggio nubiano protagonista nei film egiziani mainstream.
A suo onore va detto che El-Kassar cercò di creare un eroe della classe operaia, assegnandogli dei lavori – venditore di dolci o impiegato statale – che differivano dalla solita ghettizzazione del servo-concierge. E, innegabilmente, c’è della grande umanità e allegria nel suo personaggio.
Ma Abdel-Basset era ancora affetto dai cliché che hanno confuso la caratterizzazione dei neri da allora, influenzando il modo in cui molti egiziani hanno percepito gli africani nei decenni a venire.
Negli anni ‘60, mentre i nubiani venivano dislocati in seguito alla costruzione di dighe, prima sotto il protettorato inglese e poi sotto il governo egiziano, i personaggi neri erano ancora relegati alla periferia dello schermo. Lo spudorato scimmiottamento razzista si era intensificato ed era diventato la norma.
Anche l’essere percepiti come persone di colore poteva ostacolare la carriera. Ahmed Zaki (1949-2005) divenne una della star più famose della sua generazione – ma inizialmente, i produttori erano restii a scritturarlo, in particolare nel classico adattamento di El Karnak (1975), nonostante fosse supportato dal regista Ali Badrakhan. Il ruolo fu alla fine assegnato al più chiaro Nour El-Sherif.
Gli esempi continuano nel XXI secolo. Nel film del 2001 Africano, diretto da Amr Arafa e con protagonisti Ahmed El-Sakka e Mona Zaki, un personaggio urla: “Si è tolta la corrente o cosa?” mentre un gruppo di africani entra in una discoteca.
“La notte è scura come il tuo viso”, dice il protagonista di Ali Spicy – commedia del 2005 del regista Muhammad al Najjar – a una escort assunta dallo zio. “Se spegni le luci nessuno la vedrà”.
Secondo uno studio del Border Center for Support and Consulting, cinquantuno film egiziani del periodo compreso tra il 2007 e il 2016 comprendevano rappresentazioni stereotipate degli africani.
Il razzismo nell’era digitale
Il razzismo informale non è limitato solo al cinema: con l’esplosione della TV prima e delle piattaforme digitali poi, si è diffuso anche sugli schermi più piccoli.
Nella commedia del 2018 Azmi We Ashgan, gli africani vengono rappresentati come servi incivili che praticano stregonerie (c’è anche un uso molto liberale della parola con la N).
Nel 2019, all’interno del programma di candid camera Shklabaz, la comica televisiva Shaimaa Seif si è messa su una blackface per recitare il ruolo di una rozza donna sudanese a bordo di un minibus sovraffollato.
E l’attore egiziano Maged El Masry durante un talk show ha raccontato un aneddoto riguardo l’essersi trovato incastrato con un gruppo di ragazze africane che ha immediatamente buttato fuori dalla sua auto. Ma questo tipo di razzismo non è limitato all’Egitto.
In Tunisia e Marocco è raro vedere presentatori televisivi neri: non soltanto ciò non riflette la reale composizione etnica dei paesi, ma scoraggia anche i giovani africani dal provare a intraprendere questa professione. C’è anche Nasser al-Qasabi, che recita il ruolo del sempliciotto primitivo nella sitcom arabo-saudita Tash ma tash. Anche la serie kuwaitiana Block Ghashmara aveva un episodio in cui i due protagonisti esibivano la blackface per impersonare una coppia di selvaggi ma socievoli abitanti del deserto.
È proprio la blackface l’esempio più lampante del razzismo nel mondo dello spettacolo mediorientale e nord-africano. Ci si aspetterebbe probabilmente che la generazione più giovane di questa regione rifiuti tali arcaismi, come venivano praticati dalla leggendaria star d’azione Farid Shawky nella serie storica Antara Ibn Shaddad (1961).
Non è così: tutto è semplicemente stato adeguato al XXI secolo. Negli ultimi anni, la blackface è emersa nei video musicali del cantante egiziano Boshra e della star libanese Myriam Fares. Nelle ultime settimane c’è stato un revival su internet: attori e cantanti arabi hanno portato la blackface sui social media scambiando feticizzazione e appropriazione culturale per solidarietà; tra i colpevoli Tania Saleh, l’attrice marocchina Mariam Hussein e l’attrice e cantante algerina Souhila Ben Lachhab.
Nel gennaio del 2020, l’afro algerina Khadija Ben Hamou ha subìto insulti razzisti online quando è stata incoronata Miss Algeria. Un commentatore ha scritto che inizialmente pensava che “fosse un uomo” e che la sua faccia “era orribile”.
Nel 2020, nel mondo dello spettacolo arabo, essere neri è ancora considerato come qualcosa di brutto e pericoloso, o al contrario, una cosa alla moda, cool e di cui appropriarsi grossolanamente. Rispetto a ciò si possono fare dei paragoni con l’attitudine occidentale verso il Medio Oriente, che storicamente include sia l’orientalismo che gli stereotipi, basti pensare al tipico personaggio hollywoodiano del cattivo ragazzo terrorista.
I “personaggi” neri, se così li si può definire, non sono approfonditi: oltre ai soliti ruoli servo/concierge, vengono ora ridotti a tipi alti in modo ridicolo (solitamente sudanesi) come nella commedia egiziana del 1988 Alabanda, o a rapper cool e alla moda, in stile statunitense. Raramente un personaggio di colore, anche se con la blackface, ha un ruolo che dura più di pochi minuti.
Qualcosa cambia nel cinema d’autore?
Un barlume di speranza in questo capitolo riprovevole della storia moderna della cultura araba è una lenta ma crescente consapevolezza pubblica.
El Masry è stato obbligato a scusarsi pubblicamente tra lo sdegno sui social media e il suo show è stato sospeso dall’Alto Consiglio dei Media. Non ci sono stati nemmeno casi di blackface o prese in giro a sfondo razzista durante la stagione televisiva nel mese del Ramadan quest’anno.
Più in generale nella società, incidenti di bullismo e di insulti verso gli africani in tutta l’area hanno causato l’arresto di chi li ha compiuti. La Tunisia, ad esempio, nel 2018 ha creato un precedente nella regione criminalizzando il razzismo.
Ci sono tentativi notevoli di caratterizzazione afro, come quella di Rahil nel film di Nadine Labaki, Cafarnao (2018), candidato al premio Oscar: un lavoratore immigrato illegale, interpretato dal rifugiato eritreo Yordanos Shiferaw.
La recente ascesa del cinema sudanese è incoraggiante: si pensi a Khartoum Offside di Marwa Zein, You’ll Die At Twenty di Amjad Abu Alala e Talking About Trees di Suhaib Gasmelbari, vincitore del premio per miglior documentario a Berlino nel 2019. Una nuova generazione di afro-arabi ha finalmente la fiducia e le competenze necessarie per raccontare le proprie storie.
Queste conquiste sono però limitate. Il ruolo di Rahil non riesce a deviare dalla percezione, spesso tipica del cinema d’autore, degli africani come stranieri esotici che soffrono da sempre. L’onda sudanese, è sì forte artisticamente, ma confinata al circuito di nicchia del cinema d’autore (non cambia molto se anche troppi film seri e indipendenti del Medio Oriente e del Nord Africa non riescono a integrare gli africani nelle loro storie).
Perché avvenga un cambiamento tangibile nelle percezioni e nella mentalità, la produzione cinematografica africana deve essere integrata in quella mainstream, con una maggiore rappresentanza nera di fronte e dietro la cinepresa.
Per quasi un secolo, gli africani sono stati semplici comparse nel cinema arabo, che siano stati invisibili, oggetti di derisione con la blackface, sciamani primitivi o esotici rapper americani.
Se non si è rappresentati la propria esistenza non viene riconosciuta. Nel frattempo, il governo egiziano continua a confiscare l’ultima piccola parte di terra appartenente ai nubiani del paese, che stanno ancora chiedendo il diritto al ritorno.
Il ruolo della schiavitù
Nel 2006, un anno dopo i fatti di piazza Mustafa Mahmoud, mi trovavo a moderare un dibattito pubblico di cinema. Venne fuori il tema della discriminazione contro la comunità sudanese in Egitto e io non potei fare a meno di nominare il massacro in questione come esempio di razzismo.
Il dibattito non andò bene: metà del pubblico diceva che i sudanesi “pigri” “se l’erano cercata” per aver “inquinato” la proprietà pubblica, e anche che il governo non aveva i mezzi economici adatti a supportarli. L’altra metà sosteneva che il numero di morti fosse inferiore rispetto a quello riportato. Tutti i presenti negavano il fatto che i sudanesi fossero soggetti a una qualsiasi forma di discriminazione in Egitto.
Da ciò, per me, si evince la questione che sta al centro del razzismo contro i neri nel mondo arabo: l’arroganza. In Egitto e in altre parti del mondo, non riusciamo a confrontarci con il nostro odio e la nostra intolleranza, la nostra ignoranza e il nostro paternalismo.
La persistenza della marginalizzazione dei neri nel mondo dello spettacolo arabo è un effetto collaterale della riluttanza dei governi a riconoscere le misure discriminatorie che sono state adottate contro gli africani per secoli.
La storia della schiavitù nel Medio Oriente e nel Nord Africa è meno conosciuta rispetto a quella perpetuata dall’Europa e dagli Stati Uniti, ma ha una storia più antica che risale al VIII secolo. Alcuni autori stimano che 17 milioni di africani orientali furono resi schiavi e portati nel Golfo e in quelli che sono ora il Marocco e l’Egitto.
La tratta prosperava ancora durante il XIX secolo. In Oman, la schiavitù è stata abolita solamente nel 1970; è stata criminalizzata solo in Mauritania e nel Sahara Occidentale, rispettivamente nel 2007 e nel 2010.
Il razzismo endemico era alla base della tratta, che ha usato la vita umana come bene mobile. Tollerando la blackface, l’industria dello spettacolo araba perpetua tali pregiudizi.
Possiamo guardare con occhio critico l’America per il suo secolare razzismo sistemico – ma dobbiamo innanzitutto cominciare a guardare allo sporco che sta nel nostro giardino. Nena News