Focolai dell’infezione sono emersi in vari centri abitati arabi dove le misure preventive e i controlli sono stati avviati con ritardo. Abbandonati 150mila palestinesi con la residenza a Gerusalemme che abitano «dall’altra parte del Muro».
della redazione
Gerusalemme. 16 aprile 2020, Nena News – Insidiosi focolai dell’infezione sono emersi in diverse cittadine palestinesi in Galilea come Deir al Assad, Jisr az-Zarqa, Daburiyya, Um al-Fahm, Baqa al Gharbiyye e Tamra. E aumentano i contagi a Gerusalemme est: una ottantina negli ultimi giorni nei quartieri di Silwan, al Thawri, Beit Hanina, Sur Baher e nella città vecchia. Solo due ospedali palestinesi della città, il Makassed e il St. Joseph, sono attrezzati per rispondere all’epidemia ma hanno un numero esiguo di letti di terapia intensiva. Critiche allo scarso interesse mostrato dal ministero della sanità israeliana verso gli ospedali e le strutture sanitarie nella zona araba di Gerusalemme sono giunte anche dal sindaco di Moshe Leon, secondo quanto riferito nei giorni scorsi dal quotidiano Haaretz.
«Finalmente, il governo e il ministero della sanità hanno provveduto ad effettuare un numero significativo di tamponi anche nei nostri centri abitati», spiega il deputato Mtanes Shihade, segretario del partito Balad/Tajammo, parte della Lista unita araba. «Paradossalmente il quadro è migliore rispetto a qualche settimana fa anche se ci sono 500 contagi accertati tra i cittadini palestinesi (di Israele)» aggiunge Shihade «quando è l’epidemia si è diffusa, il ministero della sanità e le autorità hanno dimenticato gli arabi (20% della popolazione, ndr). Tutti i provvedimenti ufficiali e le istruzioni per prevenire il contagio sono stati diffusi solo in lingua ebraica e non anche in arabo». «Sono stati aperti – prosegue il deputato arabo – anche nei nostri centri abitati punti dove effettuare i tamponi in automobile. Ma abbiamo perduto settimane preziose, anche in questo caso è stato dimostrato che in Israele i cittadini arabi vengono sempre dopo gli altri».
Da settimane, l’ong Adalah di Haifa denuncia la «discriminazione sanitaria» nei confronti della minoranza araba. E con petizioni presentate alla Corte suprema sta cercando di garantire piena assistenza anche ai villaggi beduini nel Neghev non riconosciuti dallo Stato e, di conseguenza, abbandonati a se stessi, nonostante il numero significativo di positivi ai virus accertati nelle regioni meridionali, in particolare nelle città di Bersheeva e Rahat. «A quanto pare la risposta dello Stato è lenta quando il coronavirus penetra nelle comunità arabe», commenta l’avvocato di Adalah, Sawsan Zaher.
Resta ancora senza risposta la situazione dei 150mila palestinesi di Gerusalemme «dall’altra parte del Muro». Si tratta degli abitanti del campo profughi di Shuaffat, di Kufr Aqab e di altre aree arabe rimaste divise da Gerusalemme quando Israele ha ultimato la «barriera di separazione» tra la città e la Cisgiordania. Sono residenti ufficiali di Gerusalemme, pagano le tasse e da quasi 53 anni sono sotto l’autorità e la responsabilità di Israele. Tuttavia per le autorità israeliane quei palestinesi sono «fuori», di fatto esclusi da Gerusalemme. Qualche tempo fa si è parlato di piani per «cederli amministrativamente» all’Autorità Nazionale di Abu Mazen, in modo da ridurre il numero dei palestinesi nella città santa: circa 350mila secondo stime non ufficiali, quasi il 40% degli abitanti anche se per le autorità comunali sarebbero poco più del 30%.
Aumentano i positivi al test del coronavirus anche nei Territori palestinesi occupati: 313 in Cisgiordania (con 2 decessi) e 13 a Gaza. Nena News