“I prigionieri rivoltano la relazione oggettiva e soggettiva con la violenza fondendoli in un unico corpo – il corpo del detenuto in sciopero – e così facendo riaffermano il loro status di prigionieri politici e reclamano i loro diritti e la loro esistenza”, scrive Basil Farraj
di Basil Farraj – Al Shabaka*
Roma, 21 maggio 2016, Nena News – Mentre queste parole venivano scritte, tre prigionieri palestinesi erano in sciopero della fame per protestare contro le loro detenzioni senza pocesso, una pratica nascosta dietro al leggero termine “detenzione amministrativa”. Sami Janazra era al suo 69esimo giorno e la sua salute è bruscamente deteriorata, Adeeb Mafarja al suo 38esimo giorno e Fuad Assi al 36esimo. Questi prigionieri sono tra i circa 700 detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane tuttora dentro le sbarre in detenzione amministrativa, pratica che Israele usa quotidiniamente in violazione dei severi parametri posti dal diritto internazionale.
I prigionieri politici palestinesi hanno usato a lungo gli scioperi della fame come forma di protesta in risposta alle violazioni dei propri diritti da parte delle autorità israeliane. L’associazione palestinese Addameer fa risalire il primo sciopero della fame da parte dei prigionieri palestinesi al 1968. Da allora, sono stati organizzati oltre 25 scioperi della fame di massa con richieste che vanno dalla fine dell’isolamento e della detenzione amministrative al miglioramento delle condizioni di detenzione e l’autorizzazione a ricevere visite familiari.
Con l’aumento del numero di prigionieri palestinesi costretti ad affrontare interminabili scioperi della fame come “ultima” forma di protesta infliggendo violenza ai propri corpi per ottenere diritti, è necessario analizzare l’uso di questo strumento politico attraverso i paesi e i secoli e puntare i riflettori sul modo in cui i prigionieri palestinesi lo utilizzano per contrastrare il monopolio israeliano della violenza dentro le mura delle prigioni.
Passato e presente degli scioperi della fame
Se le esatte origini degli scioperi della fame – il volontario rifiuto di cibo e/o liquidi – non sono note, ci sono esempi del loro utilizzo in periodi storici e luoghi diversi. I primi casi sono rintracciabili nell’Irlanda medievale quando una persona digiunava di fronte alla casa di chi aveva commesso un’ingiustizia per svergognarlo. Utilizzi più recenti e noti sono quelli delle suffragette britanniche nel 1909, di Mahatma Gandhi durante la rivolta contro l’occupazione della Gran Bretagna in India, di Cesar Chavez durante la lotta dei contadini negli Stati Uniti e dei prigionieri incarcerati dagli Usa a Guantanamo.
Il pericolo di danni fisici irreparabili per il corpo di chi è in sciopero della fame è enorme: perdita dell’udito, della vista e ingente perdita di sangue[i]. Tanto che la morte è stata una delle conseguenze di molte persone in sciopero della fame come il caso dei prigionieri irlandesi nel 1981.
Le richieste di chi digiuna variano ma sono, in tutti i casi, il riflesso di ingiustizie sociali, politiche e economiche. Ad esempio, quella dei prigionieri irlandesi nel 1981 del ritorno allo status di categoria speciale era legata al più ampio contesto nord-irlandese[ii].
Uno dei primi scioperi della fame palestinesi fu la protesta di 7 gioni nella prigione di Askalan (Ashkelon) nel 1970. All’epoca le richieste dei prigionieri erano state scritte in un pacchetto di sigarette – perché i detenuti non erano autorizzati ad avere quaderni – e includevano il rifiuto a riferirsi ai secondini con l’appellattivo di “signore”. I prigionieri ottennero quanto richiesto ma solo dopo che Abdul-Qader Abu al-Fahem morì per essere stato costretto a mangiare, diventando il primo martire del movimento dei prigionieri palestinesi.
Scioperi della fame nella prigione di Askalan sono continuati per tutti gli anni Settanta. Altri due prigionieri, Rasim Halawe e Ali al-Ja’fati, morirono per la pratica dell’alimentazione forzata durante uno sciopero della fame nella prigione at-Nafha nel 1980. Come risultato di quella e di altre proteste simili, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di ottenere importanti miglioramenti delle condizioni di vita in carcere: sono stati autorizzati a tenere foto dei propri familiari, penne, libri e quotidiani.
Negli ultimi anni, la cancellazione della detenzione amministrativa è stata una richiesta fissa dei prigionieri palestinesi, a causa dell’escalation israeliana del suo utilizzo dallo scoppio della Seconda Intifada nel 2000. Ad esempio, lo sciopero della fame di massa del 2012, che coinvolse circa 2mila prigionieri, chiedeva la fine della detenzione amministrativa, dell’isolamento e di altre misure punitive, compreso il divieto a ricevere visite familiari per i prigionieri provenienti da Gaza. Lo scioperò terminò dopo che Israele accettò di limitare l’uso della detenzione amministrativa.
Tuttavia, molto presto Israele ha violato l’accordo aprendo la strada ad un altro sciopero di massa nel 2014 di oltre 100 prigionieri in detenzione amministrativa. Lo sciopero è finito dopo 63 giorni senza che venisse archiviato alcun risultato. La decisione dei prigionieri era stata influenzata dalla scomparsa di tre coloni israeliani in Cisgiordania e dalle campagne militari israeliane contro i Territori Occupati (a cui è seguita l’operazione di attacco contro Gaza).
Oltre a questi ci sono stati numerosi scioperi della fame individuali che a volte hanno portato a scioperi più ampi. Le proteste del 2012 e del 2014, infatti, sono iniziate da scioperi individuali che chiedevano la fine della detenzione amministrativa. È il caso di Hana Shalabi, Khader Adnan, Thaer Halahleh e Bilal Diab, che hanno tutti ottenuto la fine degli ordini. Tuttavia alcuni prigionieri sono stati riarrestati dopo il rilascio come Samer Issawi, Thaer Halahleh, Tareq Qa’adan e Khader Adnan, di nuovo rilasciato dopo un lungo sciopero per protestare contro il secondo arresto.
Le violenze inflitte da Israele ai prigionieri palestinesi
Israele continua ad assoggetare i prigionieri palestinesi a numerose forme di violenza come ben documentato da organizzazioni per i diritti umani, dalle testimonianze dei detenuti e da molti documentari[iii]. In un rapporto del 2014 Addameer scrive: “Ogni palestinese arrestato è stato soggetto a qualche forma di tortura fisica o psicologica, a trattamenti crudeli come pestaggi, isolamento, assalti verbali e minacce di violenza sessuale”.
Inoltre, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dello Statuto di Roma, Israele ha deportato detenuti palestinesi fuori dai Territori Occupati verso prigioni dentro il territorio israeliano e ha minacciato prigionieri della Cisgiordania di deportazione a Gaza se non avessero confessato. È routine il divieto arbitrale di ricevere visite familiari. I prigionieri sono esposti a deliberata negligenza medica e ad abusi, a restrizioni nell’utilizzo del telefono e nell’accesso ad avvocati, libri e televisione.
Le autorità israeliane classificano i prigionieri politici palestinesi come “prigionieri per ragioni di sicurezza”, un’etichetta che rende automaticamente legale numerose restrizioni. Tale caratterizzazione nega ai prigionieri palestinesi molti dei diritti e dei privilegi di cui godono invece i prigionieri israeliani ebrei – anche quei pochi detenuti anch’essi per motivi di sicurezza – come le visite a casa sotto scorta, la possibilità di un rilascio preventivo e di licenze.
La violenza contro i prigionieri palestinesi va vista all’interno del contesto di progetto coloniale israeliano e della sua applicazione all’intera popolazione in forme diverse, dalla perdita della terra alla distruzione della case, dall’espulsione all’esilio. Vale la pena ricordare che, dall’inizio dell’occupazione militare israeliana nel 1967, Israele ha arrestato oltre 800mila palestinesi, il 20% dell’intera popolazione e il 40% di quella maschile.
Questo fatto da solo rende chiaro come arresti e detenzione sono un meccanismo usato da Israele per controllare la popolazione mentre la spossessa dei propri beni, mettendo dei coloni al suo posto. È dentro questo contesto di violenza che emerge lo sciopero della fame come modo con cui i prigionieri palestinesi possono contrastare le varie forme di violenza dello Stato israeliano.
Usare il corpo del prigioniero per sovvertire il potere di Stato
Attraverso gli scioperi della fame, i prigionieri non sono più recipienti silenziosi per la continua violenza delle autorità carcerarie. Al contrario, infliggono violenza ai loro stessi corpi per imporre le loro richieste. In altre parole, gli scioperi della fame sono uno spazio fuori dal raggio di potere dello Stato di Israele. Il corpo del prigioniero che digiuna scuote una delle fondamentali relazioni di violenza dietro le mura di un carcere, quella in cui lo Stato di Israele e le autorità carcerarie controllano ogni aspetto delle vita dietro le sbarre e sono gli unici generatori di violenza. I prigionieri rivoltano la relazione oggettiva e soggettiva con la violenza fondendoli in un unico corpo – il corpo del detenuto in sciopero – e così facendo reclamano l’azione. Riaffermano il loro status di prigionieri politici, rifiutano la riduzione a “prigioniero per motivi di sicurezza” e reclamano i loro diritti e la loro esistenza.
Il fatto che Israele usa diverse misure per porre fine agli scioperi della fame e riaffermare il proprio potere sui prigionieri e l’uso della violenza dimostra quale tipo di minaccia i corpi dei prigionieri rappresentano per lo Stato. Tra le misure prese, le autorità carcerarie continuano a colpire con violenza e torture: la violenza a cui sono soggetti quelli che scioperano è intensificata e cambia forma.
Ad esempio durante lo sciopero della fame del 2015, ai prigionieri sono state negate assistenza mediche e visite familiari e sono stati legati ai letti degli ospedali con manette alle mani e ai piedi per 24 ore al giorno. Rimanevano ammanettati quando andavano in bagno e le porte aperte violavano il diritto alla privacy. Le autorità israeliane lasciavano volontariamente del cibo vicino ai prigionieri in digiuno per far venir meno la loro volontà. L’ex prigioniero Ayman al-Sharawna ha raccontato: “Portavano su un tavolo il cibo più buono e lo mettevano vicino al mio letto. Lo Shin Bet [i servizi segreti interni, ndr] sapeva che mi piacciono i dolci. Così portavano ogni tipo di dessert”.
Recentemente Israele ha dato copertura legale all’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero della fame attraverso la legge “per prevenire danni causati dal digiuno”, che equivale ad un trattamento crudele, disumano e degradante secondo il relatore speciale dell’Onu sulle torture. La legge è anche in condrazzione con la Dichiarazione di Malta sullo Sciopero della Fame dell’Associazione Medica Mondiale.
Israele etichetta i prigionieri in sciopero come “terroristi” e “criminali” per per minare le basi della loro azione politica e gli sforzi per ribaltare l’oggetto e il soggetto della violenza di Stato. Durante lo sciopero di massa del 2014, i funzionari israeliani hanno continuato a definire gli scioperanti “terroristi”. Il ministro della Cultura e dello Sport, Miri Regev, uno degli sponsor della legge, ha detto: “Le mura di una prigione non significano che un’azione non è terrorismo. C’è un terrorismo nelle strade e c’è un terrorismo nelle carceri”. Gilad Erdan, il ministro della Sicurezza Pubblica ha dichiarato che gli scioperi della fame sono “un nuovo tipo di attacco suicida”.
L’importanza vitale del sostegno nazionale e internazionale
Centrale per il successo di ogni sciopero della fame è l’abilità degli scioperanti di mobilitare comunità, organizzazioni e soggetti politici e di fare pressioni sulle autorità perché accolgano le richieste o negozino un accordo.
Con gli scioperi della fame i prigionieri palestinesi sono stati in grado di portare con continuità la loro lotta sul palcoscenico palestinese e internazionale. Visto che ad oggi non ci sono alterntive attraverso le quali i prigionieri possano garantirsi libertà o un cambiamento delle politiche israeliane, l’importanza di mobilitare comunità e e soggetti politici intorno ai diritti de detenuti non va sottostimato.
Organizzazioni di base e per i diritti umani e enti pubblici dentro e fuori la Palestina si sono mossi durante gli sciopero della fame. Un sostegno che ha visto incontri quotidiani, proteste di fronte alle sedi delle organizzazioni internazionali, appelli al governo israeliano perché ascoltasse le richieste dei prigionieri, manifestazioni fuori dalle prigioni e gli ospedali. Associazioni locali e internazionali come Addameer, Jewish Voice for Peace, Amnesty International e Samidoun, tra le altre, hanno messo in luce le ingiustizie affrontate dai prigionieri palestinesi così da fare pressione su Israele ad accordarsi con loro.
Inoltre, attraverso questi network, la lotta dei prigionieri palestinesi in sciopero della fame e dei detenuti più in generael, viene internazionalizzata creando paralleli con ingiustizie passate e presenti in altre parti del mondo. Nel riportare e analizzare gli scioperi della fame palestinesi, i riferimento ai prigionieri irlandesi, alle incarcerazioni di massa negli Stati Uniti e alle condizioni di vita a Guantanamo sono continui.
In questo modo la battaglia dei prigionieri palestinesi diventa parte di un crescente movimento di solidarietà e di campagne che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Questo aiuta a controbattere alla loro etichettatura da parte israeliana come “criminali” e “terroristi” e il monopolio israeliano della narrativa.
Come altre forme di resistenza dentro e fuori le mura delle prigioni, gli scioperi della fame sono atti di resistenza con i quali i palestinesi affermano la propria esistenza politica e chiedono i propri diritti. È vitale sostenere e nutrire questa resistenza. Oltre a dare forza ai prigionieri nella loro battaglia, questa forma di resistenza ispira continuamente e con forza la speranza tra i palestinesi e il movimento di solidarietà. È nostra responsabilità sia sostenere i prigionieri palestinese che lavorare perché non sia più necessrio usare questa forma di protesta che pone le loro vite in prima linea.
*Traduzione a cura della redazione di Nena News
[i] Per maggiori informazioni sulla fisiologia degli scioperi della fame, vedi Hunger Strikes, Force-Feeding and Physicians’ Responsibility http://static1.1.sqspcdn.com/static/f/402929/5736895/1265994527017/JAMA+Hunger+Strikes.pdf?token=qkHgUn5YS4s3CW1vUSqAsQbwbn0%3D
[ii] Vedi Beresford, David, Ten Men Dead London: Harper Collins Publishers, 1994.
[iii] Vedi rapporti e testimonianze di the Prisoners’ Center for Studies; Addameer Prisoner Support and Human Rights Association; Adalah: the Legal Center for Arab Minority Rights in Israel; Samidoun: Palestinian Prisoner Solidarity Network; il documentario di Al-Jazeeray Hunger Strike; e il film di Mai Masri 3000 Nights; al-Nashif, Esmail. “Attempts at Liberation: Materializing the Body and Building Community Among Palestinian Political Captives”. The Arab Studies Journal 12/13 (2004): 46–79; e Abdo, Nahla. Palestinian Women’s Anti-Colonial Struggle Within the Israeli Prison System. Pluto Press, 2014