Nella sola giornata di ieri i bulldozer dello stato ebraico hanno lasciato senza casa 124 persone (805 da inizio anno). Secondo il “The Times of Israel”, intanto, Tel Aviv e Ramallah starebbero discutendo la fine dei blitz militari israeliani nelle città cisgiordane
Roma, 9 aprile 2016, Nena News – Ancora una volta i bulldozer israeliani sono tornati all’azione in Cisgiordania: nella sola giornata di ieri, diverse demolizioni hanno lasciato senza casa 124 palestinesi (60 di questi sono bambini). A rivelare la notizia è l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Unocha). Sono nove le comunità palestinesi colpite, tutte situate in area C (il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano). A pagare il prezzo più alto è stato di nuovo il villaggio di Khirbet Tana che ha subito la quarta operazione di demolizione dall’inizio dell’anno: qui 34 strutture sono state rase al suolo, 69 le persone che sono state costrette ad evacuare l’area. In un nota, l’Unocha ha denunciato: “le abitazioni abbatute erano state fornite dai paesi donatori in sostituzione di quelle precedentemente demolite [da Tel Aviv]”.
La “colpa” di Khirbet Tana è quella di trovarsi in un’area considerata da Israele di “addestramento militare” che – denunciano le associazioni umanitarie locali – lo stato ebraico vuole annettere al suo territorio. Ma il villaggio agricolo a est di Nablus non è stato il solo ad essere stato preso di mira ieri da Tel Aviv: le demolizioni, infatti, hanno avuto luogo anche a Nilin (qui sono state abbattute alcune strutture che davano lavoro a 87 palestinesi), ad al-Zayyem vicino ad Abu Dis (Gerusalemme est) e al-Khader (sud di Betlemme). Colpite dai provvedimenti dell’Amministrazione Civile israeliana, inoltre, sono state anche cinque comunità beduine chiamate direttamente in causa dal “piano israeliano di insediamento E1″. Il progetto mira a spezzare la Cisgiordania in due tronconi (con relativa espansione della colonia di Malee Adumim) rendendo l’ipotesi di risoluzione del conflitto accettata internazionalmente a due-stati nei fatti irrealizzabile.
Secondo dati Onu, dall’inizio dell’anno Tel Aviv ha demolito 539 strutture in Area C lasciando senza tetto 805 persone. Dati ancora di più significativi se si pensa che nell’intero 2015 le case distrutte dai bulldozer israeliani erano state complessivamente 435 (580 i palestinesi sfollati). Nelle aree C per un palestinese è quasi impossibile ottenere un permesso edilizio, qualunque costruzione non autorizzata viene inesorabilmente ridotta in polvere dalle ruspe israeliane.
Il governo israeliano ripete che la (sua) legge va rispettata e che gli “abusi edilizi” saranno puniti. Un avvertimento che però riguarda solo i palestinesi perchè le colonie ebraiche costruite in Cisgiordania dopo l’occupazione nel 1967 continuano ad espandersi in violazione delle leggi internazionali. E negli ultimi mesi, anche in risposta agli aiuti e ai progetti europei nell’Area C a sostegno delle comunità palestinesi, le demolizioni si sono moltiplicate. Siamo al livello più alto dal 2009 aveva avvertito il mese scorso l’Ocha. Un terzo delle strutture a essere state prese di mira erano state donate a famiglie senza casa. A forte rischio sono da anni i palestinesi che vivono sulle colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania meridionale. Anche in questa zona c’è una vasta area di addestramento militare oltre a numerosi insediamenti colonici.
E soggette a demolizione sono pure le comunità beduine a Est di Gerusalemme. Qui lo scorso 21 febbraio le ruspe militari hanno ridotto in macerie la scuola elementare di Abu al Nuwwar, costruita con fondi europei perchè “illegale”. I soldati non hanno mancato di confiscare anche banchi e sedie. Abu al Nawwar è tra le 46 comunità beduine che rischiano la rimozione forzata.
Le demolizioni di massa di ieri giungono nelle stesse ore in cui la missione diplomatica dell’Autorità palestinese (Ap) alle Nazioni Unite consegnava ai paesi arabi una bozza di risoluzione per condannare l’espansione coloniale israeliana che è considerata nel testo “un ostacolo alla pace”. L’obiettivo di Ramallah è farla arrivare in Consiglio di Sicurezza il 22 aprile prossimo, quando oltre 130 paesi parteciperanno alla cerimonia sull’accordo per il clima siglato a Parigi lo scorso dicembre. La mossa dell’Ap ricalca quella già compiuta nel febbraio 2011 quando una risoluzione in merito alle colonie illegali nei Territori Occupati Palestinesi fu votata al Palazzo di Vetro, ma finì per essere bocciata dal solo veto statunitense (14 furono i sì).
Ma se da un lato prova ad alzare la voce contro Israele, dall’altro l’Ap continuerebbe a mostrarsi dialogante con lo stato ebraico. Secondo quanto ha riferito ieri il The Times of Israel, infatti, sarebbero in corso trattative tra ufficiali israeliani e palestinesi per porre fine alle attività militari dello stato ebraico in alcune città cisgiordane. I negoziati procedono, scrive il quotidiano, nonostante l’Autorità palestinese abbia rifiutato una proposta israeliana che prevede per ora la fine delle operazioni dell’esercito soltanto a Ramallah e Gerico. Nel frattempo che le due parti trovino una qualche intesa, la routine regna sovrana: il portale in arabo dell’agenzia Maan riporta di blitz compiuti stanotte dai militari nell’area di Hebron, Betlemme e Jenin. Nena News