La regista del cortometraggio vincitore del Bafta e candidato agli oscar, Farah Nabulsi, parla con Electronic Intifada dell’attuale situazione palestinese, delle elezioni, del colonialismo di insediamento e delle speranze per il futuro
di William Parry – The Electronic Intifada
(Traduzione di Cristiana Cavagna – Zeitun.info)
Roma, 21 aprile 2021, Nena News – La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie. Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (Bafta), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.
Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film. Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il Bafta, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.
Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi? “Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.
Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale e umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.
Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba. Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”
Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale. “Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso – dice Nabulsi – Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”
Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione Usa guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo? “Non vedo reali differenze tra Biden e Trump – dice Nabulsi – Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no”. Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.
“È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo”. Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden”.
Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano. “Certo – dice – Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”
Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco”. Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa”. “Perché non hanno dichiarato collettivamente: ‘Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo’. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile”.
Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta”. “Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid”.
I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione”.
Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.
Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto Questo è apartheid dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].
“Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose”. Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.