Inutili gli appelli lanciati dai centri per la difesa dei diritti umani e dalle Nazioni unite per la sospensione delle condanne a morte
di Marco Siragusa
Roma, 27 luglio 2019, Nena News – Il Bahrain ha giustiziato due attivisti a favore della democrazia, incurante degli appelli a commutare in una pena detentiva le condanne a morte emesse in un processo descritto come “ingiusto” dai centri per i diritti umani.
Ahmad al Mullali, 24 anni, e Ali Hakim al Arab, 25 anni, sono stati messi a morte nella prigione di Jaw, a sud della capitale del Bahrein, Manama, la scorsa notte dopo aver incontrato le loro famiglie. La legge locale prevede che i detenuti nel braccio della morte ricevano una visita dalla famiglia nello stesso giorno in cui saranno uccisi.
Entrambi erano stati condannati per “terrorismo”, per possesso di armi da fuoco e per aver ucciso un agente di polizia. Accuse senza fondamento secondo l’opposizione bahranita che parla di confessioni estorte con la tortura. Mullali e Arab erano stati arrestati separatamente nel febbraio 2017 e condannati a morte nel gennaio 2018 al termine di un processo di massa segnato da denunce di torture e gravi abusi. La Corte di cassazione ha confermato le condanne a morte lo scorso maggio e re Hamad bin Isa Al Khalifah ha ratificato il verdetto.
Human Rights Watch (Hrw) aveva invitato il re del Bahrein a revocare immediatamente le esecuzioni e risparmiare la vita dei due giovani. Secondo Amnesty International al Malali e al-Arab sono stati torturati in carcere con scosse elettriche e percossi brutalmente.
“Se le autorità del Bahrein dovessero portare a termine queste esecuzioni sarebbe uno spettacolo vergognoso di disprezzo per i diritti umani. La pena di morte è un attacco al diritto alla vita e una punizione crudele, disumana e degradante. Il suo utilizzo è spaventoso in ogni circostanza ma è tanto più scioccante quando viene imposto dopo un processo iniquo in cui gli imputati sono stati torturati”, ha commentato prima delle esecuzioni Lynn Maalouf, direttore in Medio Oriente di Amnesty International invocando un intervento di Stati uniti e Gran Bretagna, i due principali alleati del Bahrain in Occidente. Inutile anche l’appello a fermare le esecuzioni lanciato da Agnes Callamard, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani,
La popolazione bahranita, formata in maggioranza da sciiti, chiede che la famiglia Al Khalifah rinunci al potere assoluto, accetti di diventare una monarchia costituzionale e consenta l’istituzione di un sistema democratico. A queste richieste però la monarchia, sostenuta dalla minoranza sunnita e dal potente vicino, l’Arabia saudita, ha risposto con il pugno di ferro, facendo arrestare gli attivisti per i diritti umani, dichiarando illegali i partiti politici dell’opposizione e revocando la nazionalità a numerosi dissidenti ed oppositori.
Nel marzo 2011 truppe dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, giunsero in aiuto di re Hamad per reprimere il presidio permanente per la democrazia sorto in Piazza della Perla, nella capitale Manama, sull’onda delle primavere arabe. La violenta repressione causò oltre cento morti e centinaia di feriti. In seguito, dopo un lungo e inutile dialogo tra regime ed opposizioni, sono stati arrestati migliaia di cittadini e leader politici con l’accusa di “terrorismo” e di voler rovesciare la monarchia e proclamare una repubblica islamica sciita simile a quella iraniana. Nena News