Il termine apartheid viene spesso utilizzato con riferimento alla situazione dei palestinesi sotto occupazione. Yara Hawari studia l’applicazione del termine alla situazione dei cittadini palestinesi di Israele, focalizzandosi su cittadinanza, territorio, educazione e politica. E si chiede se tale analisi possa contribuire alla promozione dei diritti di tale comunità e al contrasto della divisione tra i palestinesi nel loro insieme
di Yara Hawari – Al Shabaka
(Traduzione di Elena Bellini)
Ramallah, 8 dicembre 2017, Nena News – Alcune figure di spicco del panorama internazionale hanno definito “apartheid” la realtà della Cisgiordania, facendo riferimento a elementi di segregazione come le strade per soli coloni, gli insediamenti fortificati e il muro di separazione. Nel suo libro “Peace Not Apartheid” del 2006, l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha applicato il termine nello specifico ai Territori Palestinesi Occupati (Opt), mentre John Kerry nel 2014 ha avvisato che Israele “potrebbe” diventare uno Stato di apartheid nel caso in cui non si realizzasse la soluzione dei due Stati.
Più di recente, però, alcune voci eminenti hanno utilizzato il termine riferendosi alla situazione dei cittadini palestinesi di Israele. Jodi Rudoren, ex capo della redazione di Gerusalemme del New York Times, ha dichiarato: “Io… penso che la questione dell’apartheid riguardi più il modo in cui vengono trattati gli arabo-israeliani (cittadini palestinesi di Israele) all’interno di Israele”. All’inizio di quest’anno, La Commissione Economica e Sociale per l’Asia Occidentale (Escwa) ha pubblicato un rapporto in cui dichiara che Israele, fin dall’inizio, “ha stabilito un regime di apartheid che controlla il popolo palestinese nel suo insieme”, intendendo con palestinesi non solo quelli dei Territori Occupati, ma anche quelli in esilio e quelli che risiedono in Israele.(1)
Il presente documento di sintesi analizza il concetto di apartheid applicato ai cittadini palestinesi di Israele, focalizzandosi in particolare su cittadinanza, territorio, educazione e politica. Conclude proponendo strategie su come utilizzare tale analisi per promuovere i diritti dei cittadini palestinesi e per contribuire a contrastare la disgregazione del popolo palestinese.
Apartheid: gli esordi
Il diritto internazionale consuetudinario e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definiscono l’apartheid come “gli atti disumani… commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziali, ed al fine di perpetuare tale regime”.
Anche se molti associano l’apartheid al Sudafrica, la definizione è applicabile universalmente e questo mette in discussione l’idea errata che l’apartheid sia stato un evento eccezionale e da allora concluso. La definizione permette anche di considerare l’apartheid come un sistema che può assumere diverse caratteristiche e che si manifesta con varie modalità, tra cui quella economica (si veda Rethinking Our Definition of Apartheid, secondo cui l’apartheid in Sudafrica non è ancora finita).
Mentre 750mila palestinesi venivano espulsi dai confini del neonato Stato ebraico nel 1948, 150mila palestinesi sopravvissero e furono sottoposti alla legge marziale per circa 20 anni. Questo periodo, conosciuto come governo militare, trovava fondamento nei Regolamenti d’Emergenza del 1945, introdotti dalle autorità del Mandato Britannico, che se ne servirono per controllare gli arabi della Palestina. Le normative limitavano ogni aspetto della vita dei palestinesi nel nuovo Stato, incluse la libertà di movimento e la libertà di espressione politica.
In questo periodo vi fu una massiccia appropriazione di terre, grazie alla Absentee Property Law (Legge sulla Proprietà degli Assenti) approvata dalla Knesset nel 1950. La legge è ancora oggi lo strumento principale attraverso cui Israele confisca terre, anche a Gerusalemme Est (2). La normativa permette allo Stato di confiscare proprietà a chiunque abbia lasciato il proprio luogo di residenza tra il 29 novembre 1947 e il 19 maggio 1948. Questa e altre leggi, tra cui quelle che compongono la Legge Fondamentale – che funge tuttora da Costituzione israeliana – hanno codificato l’apartheid nel sistema legislativo. Queste leggi affermano anche la dottrina fondante di Israele: supremazia ebraica in uno Stato ebraico, con discriminazione di tutti gli altri.
Anche se il regime militare è stato abolito nel 1966, la comunità palestinese continua a essere considerata una potenziale minaccia demografica alla natura dello Stato. Israele, quindi, ha mantenuto sia la segregazione che l’emarginazione dei palestinesi. Oggi, i palestinesi di Israele sono 1,5 milioni, un quinto della popolazione totale. Non c’è stato alcun tentativo di assimilarli nella struttura coloniale, come invece in altri casi di regimi coloniali. L’obiettivo di assicurare a Israele una natura esclusivamente ebraica ha marginalizzato i cittadini palestinesi, che continuano a sopravvivere.
Cittadinanza come sistema di apartheid
Si dice spesso che i palestinesi in Israele sono cittadini “di seconda classe”, ma questa espressione non riflette la realtà. Anche se ai palestinesi rimasti entro i confini del nuovo Stato venne concessa la cittadinanza israeliana, questa non è mai stata usata come meccanismo di inclusione. E questo perché in Israele, a differenza che nella maggior parte dei paesi, cittadinanza e nazionalità sono termini e categorie distinte.
Mentre esiste qualcosa come la cittadinanza israeliana, non c’è una nazionalità israeliana; la nazionalità viene definita, piuttosto, secondo criteri etnico-religiosi. Israele individua 137 possibili nazionalità, tra cui ebrei, arabi, drusi, che vengono registrate sulle carte d’identità e in banche dati. Dal momento che lo Stato si autodefinisce costituzionalmente “ebraico”, chi ha nazionalità ebraica ha la meglio sulla popolazione non ebraica (per lo più palestinese).
Visto che la Nazione Ebraica e lo Stato di Israele sono considerati un tutt’uno, l’esclusione dei cittadini non ebrei è una logica conseguenza. Il rapporto dell’Escwa spiega che la differenziazione tra cittadinanza e nazionalità consente un sofisticato e velato sistema razzista non necessariamente riconoscibile dall’ignaro osservatore. Il sistema divide la popolazione in due categorie (ebrei e non ebrei), incarnando l’esatta definizione di apartheid. I cittadini palestinesi sono dunque definiti come “arabi israeliani”, un termine che è divenuto comune nei media mainstream. Oltre a fungere da elemento del sistema binario di esclusione, questo termine mira a negare l’identità palestinese di questi cittadini, permettendo nel contempo a Israele di dipingersi come Stato variegato e multiculturale. Tutto ciò si concretizza nell’accesso alla terra, agli alloggi e all’istruzione, come si vedrà di seguito.
Sia i cittadini palestinesi che gli ebrei israeliani hanno portato svariate volte la questione di cittadinanza e nazionalità davanti al giudice. Mentre i palestinesi l’hanno fatto per tentare di guadagnare pieni diritti all’interno dello Stato, gli ebrei israeliani solitamente hanno chiesto di rinunciare all’identità etnico-religiosa. Finora la Corte Suprema israeliana ha rigettato tutte le petizioni volte a far cambiare la legge perché la nazionalità israeliana si aprirebbe tecnicamente all’inclusione di cittadini non ebrei e ciò metterebbe in discussione il fondamento sionista di Israele come Stato-nazione ebraico.
Segregazione e privazione della terra
Anche l’organizzazione territoriale all’interno di Israele è una dimostrazione di apartheid. La maggior parte dei cittadini palestinesi di Israele vive in villaggi e città “per soli arabi”, solo pochi abitano in “città miste”. Tale segregazione non è accidentale né è un modello residenziale “naturale”. Un rapido esame svela l’obiettivo israeliano: concentrare la massima quantità di arabi palestinesi nel minor spazio possibile.
I villaggi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 hanno visto la maggior parte delle loro terre confiscate, e da allora non è permessa alcuna espansione. Il risultato è che i villaggi e le città arabe soffrono di un pesante sovraffollamento e non vi è alcuna possibilità di miglioramento attraverso lo sviluppo o la crescita. Inoltre, dal 1948, non una singola città araba è stata costruita, né un villaggio.
Se i palestinesi lasciano le loro città e i villaggi d’origine, viene loro impedito l’acquisto o l’affitto di terre, principalmente per due meccanismi: i comitati di ammissione e il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf) e le politiche discriminatorie delle autorità statali. Le comunità rurali possono istituire comitati d’ammissione che valutano la “compatibilità sociale” di potenziali residenti, spianando la strada al rifiuto “legalizzato” dei richiedenti palestinesi perché non sono ebrei. L’Alta Corte ha difeso questa pratica nonostante i ricorsi contro di essa.
La Israel Land Authority (conosciuta come Israel Land Administration fino al 2009) è stata incaricata fin dall’inizio di portare avanti il mandato del Fondo Nazionale Ebraico e agire come custode della terra di Palestina per il popolo ebraico, nonché operare secondo lo Statuto del 1952 dell’Organizzazione Sionista Mondiale – Agenzia Ebraica, la cui principale funzione è riunire e trasferire in Israele la comunità ebraica mondiale.
I piani regolatori urbani e rurali e l’organizzazione del territorio, quindi, preservano la supremazia del carattere ebraico dello Stato e supportano la narrativa sionista. L’obiettivo del National Master Plan, formulato in base alla Planning and Building Law del 1965, ribadisce questa politica: “Sviluppare spazi in Israele in un modo che permetta di raggiungere gli obiettivi della società israeliana e delle sue diverse componenti, di realizzarne il carattere ebraico, di assimilare gli immigrati ebrei e mantenere il carattere democratico”.
Questa ideologia e le politiche che la promuovono hanno avuto conseguenze devastanti per gli spazi palestinesi entro i confini del 1948. In Galilea, dove i palestinesi sono la maggioranza, il governo israeliano ha portato avanti tentativi circostanziati di “giudaizzazione” della regione. Tra questi, il circondare i villaggi palestinesi di insediamenti israeliani per prevenire la contiguità territoriale, svelando così la preoccupazione dello Stato per l’aspetto demografico, e specialmente la paura dell’aumento della popolazione palestinese. Questa ossessione israeliana si è concretizzata anche in continue deportazioni e ricollocazioni forzate di decine di migliaia di beduini palestinesi nel Naqab (Negev).
Sono 90mila i beduini che vivono in “villaggi non riconosciuti”: Israele, cioè, considera illegali i villaggi e i loro abitanti “intrusi” nel territorio dello Stato. La classificazione di “illegale”deriva innanzitutto dal fatto che molti dei villaggi sono preesistenti alla nascita di Israele, e la consuetudine beduina stabilisce la proprietà della terra. Relativamente ai restanti villaggi, i beduini li fondarono dopo essere stati espulsi dalle terre dei loro antenati nel 1948, e non sono “autorizzati” dallo Stato. In questo modo, Israele fa appello alla legalità per privare molti beduini del Naqab di servizi di base come acqua ed elettricità e, in molti casi, demolisce anche i villaggi.
Il fatto che palestinesi e ebrei vivano in spazi separati rende più semplice per Israele privare i palestinesi di servizi ovunque entro i confini del 1948. Le istituzioni semi-governative che hanno a che fare con l’allocazione delle risorse favoriscono tale privazione. Queste istituzioni sono organismi ebraici o sionisti, tra cui l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, e il loro mandato è mettersi a disposizione del popolo ebraico e preservare il carattere sionista dello Stato. Il risultato è che negano risorse ai palestinesi nello stesso modo in cui ai palestinesi è negato lo spazio, sulla base del fatto che non sono ebrei. Anche se molti Paesi hanno una distribuzione di terre e di risorse ineguale e ingiusta, è raro che tali politiche siano sancite dalla legge in modo così esplicito come in Israele.
(continua)
Note:
1. Il rapporto dell’ESCWA dichiara che “Israele ha stabilito un regime di apartheid che opprime il popolo palestinese nel suo insieme… Israele è colpevole di politiche e pratiche che costituiscono il crimine di apartheid come giuridicamente definito dal diritto internazionale”.
2. Un caso recente è stato il tentativo di espulsione, nel 2014, della famiglia Ghait-Sub Laban, che viveva nella propria casa di Gerusalemme Vecchia da 60 anni.
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Yara Hawari è ricercatrice per le politiche palestinesi di Al-Shabaka – The Palestinian Policy Network. Studiosa e attivista anglo-palestinese, i suoi scritti sono una costante fonte di informazione grazie al suo impegno per la decolonizzazione. Nata in Galilea, Yara ha passato la vita tra la Palestina e la Gran Bretagna. Attualmente è all’ultimo anno di dottorato allo European Centre for Palestine Studies dell’Università di Exeter. La sua tesi prende in esame progetti e iniziative di storia orale in Galilea, e più in generale la storia orale come forma autoctona di produzione del sapere. Yara è anche assistente universitaria e lavora come come giornalista freelance per vari organi di stampa, tra cui The Electronic Intifada e The Independent.