Prima parte di un breve viaggio nel paese dopo il definitivo ritiro occidentale e il ritorno al potere del Talebani. In tre puntate cercheremo di capire i nuovi equilibri, tra le potenze chi si inseriscono nella crisi, quelle che cambiano paradigma e le forze che rimangono, i studenti coranici ma anche la società civile che resiste
di Valeria Poletti
Roma, 12 ottobre 2021, Nena News – Dopo un anno e mezzo di trattative con i Talebani, l’esercito degli Stati Uniti e le truppe alleate lasciano l’Afghanistan. L’ultimo volo degli americani è salutato in Occidente da commenti ironici sull’avventura di 20 anni di guerra finita in una fuga precipitosa e in un indecoroso fallimento. I più importanti Paesi musulmani tacciono.
Imran Kan, primo ministro del Paese che più ha sostenuto la guerra delle bande islamiste, afferma che «gli insorti hanno spezzato le catene della schiavitù». Ha ragione? L’indipendenza nazionale, quella che i Talebani hanno sempre affermato di perseguire e che ora hanno effettivamente conseguito, non è la stessa cosa della liberazione dalla schiavitù, ma è esattamente ciò contro cui USA e alleati hanno combattuto per due decenni.
Della schiavitù imposta ad una intera popolazione è importato e importa poco, anche se la campagna mediatica delle “democrazie” nel mondo si è affannata a testimoniare compassionevole solidarietà alle donne afghane colpite dalla più brutale oppressione “di genere”.
Quello che importa è che un Paese ricco di risorse naturali e punto di intersezione di vie di transito delle merci e degli affari sia “stabilizzato”, cioè che vi sia qualcuno che comanda con il quale trattare l’apertura alla competizione tra multinazionali. L’uscita di scena (almeno apparente) degli Stati Uniti contribuisce a sconvolgere la rete di alleanze che hanno tenuto in equilibrio i rapporti tra le grandi potenze e lascia spazio al conflitto tra Paesi musulmani che rischia di coinvolgere l’Occidente.
CHI ESCE
Secondo l’accordo firmato in Qatar il 29 febbraio 2020, i Talebani concordano che “il suolo afghano non sarà usato contro la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati” e gli Stati Uniti acconsentono al ritiro di tutte le forze straniere dall’Afghanistan. Su insistenza dei Talebani, l’allora governo afghano, peraltro difficilmente considerabile legittimo(1), non ha preso parte alle trattative. Gli stessi talebani non sono uniti: i leader politici firmano l’accordo, ma i comandanti sul campo hanno posizioni contrastanti(2).
A quanto riporta il Time del 15 febbraio 2020, «l’accordo contiene allegati segreti, secondo tre persone che hanno familiarità con i dettagli dell’attuale bozza. Il primo è un accordo per la permanenza nel Paese delle forze antiterrorismo statunitensi. La seconda è una denuncia dei talebani contro il terrorismo e l’estremismo violento. Il terzo allegato contiene un meccanismo per monitorare se tutte le parti stanno onorando la semi-tregua mentre procedono i colloqui tra le parti in guerra afghane, secondo due delle fonti, e l’ultimo si occupa di come la CIA opererà in futuro nelle aree controllate dai talebani»(3).
Non c’è stato, dunque, spazio contrattuale per gli alleati che, durante i 20 anni di guerra, hanno dato un contributo in armi, truppe e finanziamenti non indifferente. Ma nemmeno c’è stato spazio di rappresentanza per una popolazione privata, ieri come oggi, di qualsiasi diritto.
Gli Stati Uniti se ne vanno lasciando un sostanzioso boccone in mano alla Cina: nel 2007 il governo afgano ha firmato un contratto di 30 anni per 3 miliardi con la Cina Metallurgical Group, un’impresa mineraria statale con sede a Pechino, per sfruttare il deposito di rame di Mes Aynak. Inoltre, il sottosuolo dell’Afghanistan è ricchissimo di terre rare4 e minerali del valore di almeno 1000 miliardi di dollari.
«Nel 2006, i ricercatori statunitensi hanno effettuato missioni aeree per condurre indagini magnetiche, gravitazionali e iperspettrali sull’Afghanistan. Le rilevazioni aeree hanno determinato che l‘Afghanistan può contenere 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di tonnellate di minerale di ferro, 1,4 milioni di tonnellate di elementi delle terre rare come lantanio, cerio e neodimio e filoni di alluminio, oro, argento, zinco, mercurio e litio. Ad esempio, il giacimento di carbonatite Khanneshin, nella provincia di Helmand in Afghanistan, ha un valore di 89 miliardi di dollari, pieno com’è di terre rare»(5) .
Certamente Washington ha compiuto un sacco di errori in questi venti anni di guerra, per esempio trascurando la ricostruzione e la crescita economica e strutturale del Paese (come, invece, si impegna a fare la Cina), sottovalutando l’organizzazione tribale avversa a forme di potere centralizzato e il consolidato potere dei Talebani su parte delle provincie e delle popolazioni locali, e sopravvalutando, invece, la possibilità di costruire un governo fantoccio e un esercito ad esso fedele.
Peggio ancora calibrando il proprio intervento militare sul modello del controterrorismo invece che su quello di controinsurrezione, dimenticando che i Talebani avevano conservato il controllo di vaste zone dove continuavano ad amministrare la giustizia e ad imporre la loro tassazione. Ma non hanno deciso il ritiro pensando di avere raggiunto i propri obiettivi, né in conseguenza di una sconfitta sul campo. Con gli accordi di Doha hanno consapevolmente promosso i Talebani a interlocutore politico e futuro governo afghano.
La partita è chiusa? Probabilmente no: Stati dotati di armi nucleari (India e Pakistan) competono tra loro per ottenere influenza sull’Afghanistan e gli Stati Uniti non mancheranno di provare a fare l’ago della bilancia. E non è detto che, in futuro, i nemici non saranno diversi dai Talebani.
Gli Usa non hanno problemi con le formazioni jihadiste (e/o terroriste) che rappresentano, invece, una minaccia per Cina, Russia e Pakistan; è piuttosto la concorrenza strategica con e tra questi attori ad essere motivo di preoccupazione e ci sono pochi dubbi che Washington sarebbe disposto ad “incoraggiare” l’una o l’altra fazione islamista al fine di destabilizzare quel Paese che i diretti competitori vorrebbero “pacificato” sotto il tallone di un governo amico.
Ma, se l’obiettivo finale è mettere in scacco la Cina, piuttosto che dissanguarsi in una guerra senza fine in Centro-Asia sembra conveniente procedere ad un accerchiamento sul fronte del Pacifico: è di questi ultimi giorni la notizia del patto di alleanza strategica, militare e di sicurezza tra Stati Uniti Australia e Gran Bretagna (Aukus) che fornirà a Canberra una flotta di sottomarini a propulsione nucleare(6).
Inoltre, «il coinvolgimento americano in Afghanistan potrebbe non essere finito e in caso di ulteriori incursioni contro i terroristi dello Stato Islamico del Khorasan, la responsabilità delle operazioni potrebbe venire affidato alla Marina. (…) La soluzione migliore rimane quindi lo stazionamento di portaerei e squadre navali nel Mare Arabico (in quanto gli USA non hanno basi nei Paesi confinanti con l’Afghanistan, ndr)»(7).
Escono di scena e si accomodano nel sottopalco anche le potenze europee(8) che non hanno le capacità militari per rimanere senza la copertura americana, tra queste l’Italia, schierata, da subito a protezione degli investimenti ENI nel vicino Turkmenistan, degli affari legati all’oppio, della realizzazione di infrastrutture(9) e delle relazioni con l’Iran.
E, al pari degli altri “grandi”, il governo italiano sta già schierando le sue pedine in vista di un nuovo rapporto con i vincitori, parola del nostro ministro degli Esteri Di Maio: “Con i Paesi dell’area e con i nostri partner che hanno già dislocato in Qatar i propri punti di rappresentanza competenti per l’Afghanistan, stiamo riflettendo sulla creazione di una presenza congiunta in Afghanistan – un nucleo formato da funzionari di più Paesi sotto l’ombrello dell’Unione Europea o, eventualmente, delle Nazioni Unite – con funzioni prevalentemente consolari e che serva da punto di contatto immediato. Si tratterebbe di una soluzione innovativa, per la quale sarà necessario un efficace coordinamento preventivo”, ha detto il ministro che ha spiegato di aver già discusso del trasferimento dell’ambasciata a Doha “con il mio omologo qatarino, che ha confermato massima collaborazione. (10)
(Continua domani con la seconda parte)
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Note:
1. «L’ultima elezione presidenziale afghana si è svolta il 28 settembre [2019], dopo essere stata rinviata per diversi anni. A causa di numerose irregolarità e proteste da parte di vari candidati, i risultati non sono stati annunciati fino al 18 febbraio 2020, quasi cinque mesi dopo le elezioni. (…) Ci sono state numerose irregolarità nel processo elettorale, tra cui la violenza in molti dei seggi elettorali, l’uso di dispositivi di voto biometrici sconosciuti e vere e proprie frodi elettorali. Di conseguenza, solo circa 1,8 milioni dei 9,6 elettori registrati hanno votato e quasi 300.000 voti sono stati contestati e molti respinti». (Grant Farr, The Afghan Peace Agreement and Its Problems – 6 aprile 2020)
2. «I leader talebani che hanno negoziato l’accordo di pace appartengono al gruppo dirigente talebano denominato Quetta Shura. Questo gruppo opera dal Pakistan ed è in gran parte un’organizzazione politica ed economica. La Quetta Shura controlla il redditizio commercio di oppio ed eroina che finanzia le operazioni militari dei talebani in Afghanistan. La Quetta Shura è guidata da alti talebani, tra cui Haibutullah Akhundzada, Mohammed Yaqub, Mohammed Omar e Abdul Ghani Baradar». (ibidem)
3. Kimberly Dozier, Secret Annexes, Backroom Deals: Can Zalmay Khalilzad Deliver Afghan Peace for Trump? – 15 febbraio 2020.
4. Le terre rare sono 17 metalli che sono fondamentali per l’industria elettronica e delle tecnologie avanzate essendo indispensabili per la produzione di batterie al litio, pale eoliche e pannelli solari. La Cina ne controlla quasi interamente la produzione mondiale: gli Stati Uniti e l’Europa dipendono rispettivamente per l’80% e il 98% dalla Cina per la fornitura di terre rare.
5. Rare Earth: Afghanistan Sits on $1 Trillion in Minerals – 5 settembre 2014.
6. Non si tratta solamente di una risposta al rapido ammodernamento e potenziamento della marina cinese, ma anche di un argine posto alle ambizioni europee di giocare un ruolo nella regione dell’Indo-Pacifico: questo accordo, che ha prodotto la cancellazione della commessa miliardaria che la Francia aveva concordato con l’Australia per la fornitura dei sottomarini, prevede la condivisione di informazioni tra i tre Paesi in aree come l’intelligenza artificiale, la cybersicurezza, i computer quantistici e le capacità di difesa sottomarine. «Oltre alla perdita commerciale di un contratto del valore di 90 miliardi di AUD all’industria della difesa francese, il patto solleva anche interrogativi sulle pretese di Parigi come potenza indo-pacifica. L’eredità dell’impero francese, unica tra i paesi europei, comprende diversi territori della regione, come La Reunion e la Polinesia francese, che ospitano circa 1,6 milioni di cittadini francesi e comprendono una zona economica esclusiva di circa 9 milioni di chilometri quadrati. Di fronte alle ambizioni espansionistiche della Cina, la Francia ha tentato di riaffermare la sua potenza militare nell’Indo-Pacifico. Nella regione sono dispiegati circa 7.000 soldati. Nel 2020, per la prima volta in due decenni, la Francia ha inviato un sottomarino nucleare nell’Indo-Pacifico come mezzo per segnalare che era disposta e in grado di proteggere i propri interessi lì». (Ido Vock, Why EU support for France over Aukus has been muted – 22 settembre 2021)
7. Eugenio Roscini Vitali, Gli USA puntano sulla Marina (e nuove basi) per tenere sotto tiro l’Afghanistan – 9 settembre 2021.
8. Formalmente, gli alleati NATO sono entrati in Afghanistan per ottemperare all’articolo 5 del trattato, cioè a fianco degli Stati Uniti colpiti un attacco terroristico proveniente da un Paese terzo. Nei fatti pensavano di ottenere in cambio assistenza alle loro operazioni in Africa.
9 Cfr.: L’Italia e la guerra che profuma di zafferano e oppio – 24 ottobre 2015.
10. Di Maio: “Valutiamo presenza a Kabul con altri partner” – 7 settembre 2021.