L’operazione contro i curdi siriani serve ad Ankara per imporsi nell’area. E l’attacco supera i confini, arrivando a Baghdad, Teheran e Damasco
di Francesca La Bella
Roma, 29 gennaio 2018, Nena News – Afrin è una piccola enclave nel nord della Siria. Un fazzoletto di terra che in quest’ultima settimana è diventato teatro primario dello storico conflitto per la liberazione del popolo curdo. L’attacco da parte di forze turche e di membri del redivivo Esercito Libero Siriano, colpendo il territorio di Afrin, ambisce a colpire l’idea stessa sottesa al progetto di unità nazionale del Rojava rappresentata dalla Federazione del Nord della Siria.
Dopo l’operazione Scudo dell’Eufrate dell’estate 2016 i territori controllati dalle Forze Democratiche Siriane sono aumentati e il percorso per ottenere, pur permanendo lo stato di guerra, una amministrazione effettiva dei territori strappati allo Stato Islamico è stato implementato. Nonostante le resistenze di tutti gli attori coinvolti nella regione, l’avanzamento politico e militare ha permesso alle forze curde siriane di imporsi come interlocutore imprescindibile per la determinazione del futuro dell’area. Parallelamente le vittorie sul campo di Ypg, Ypj e Sdf hanno dato nuova forza alle mobilitazioni della popolazione curda distribuita negli altri Paesi dell’area e l’epica della resistenza contro lo Stato Islamico ha rafforzato i legami transnazionali intra-curdi.
L’attacco turco si è scagliato contro tutto questo, cercando di ottenere, attraverso la penetrazione in territorio siriano, una fascia di sicurezza lungo il confine Siria-Turchia. Non si tratta, però, di mere questioni logistiche all’interno di un contesto bellico. L’occupazione del territorio di Afrin per Ankara, infatti, significa molto di più. Significa ribadire il proprio ruolo nell’area e obbligare gli alleati internazionali a prendere posizione pro o contro la Turchia; significa sancire dei limiti alla trattativa con il governo di Damasco cercando di arrivare all’incontro di Sochi di fine mese in una posizione di forza; significa, infine, spezzare i legami tra i curdi presenti in Siria e i curdi turchi, oggetto, ormai da più di due anni, di una rinnovata repressione da parte dello stato centrale.
Gli eventi di questi ultimi giorni non riguardano solo curdi siriani e Turchia. E’ necessario evidenziare come ciò che sta accadendo sia frutto dell’azione di tutti i principali protagonisti della contesa siriana. Iraq e Iran, confrontandosi ogni giorno con le richieste e le necessità delle proprie minoranze curde, sembrano aver assunto un atteggiamento attendista per valutare l’evolversi degli eventi. Nel caso iracheno, a seguito della mancata messa in atto dell’indipendenza nonostante la vittoria del si al referendum, forti tensioni hanno attraversato la politica del Kurdistan iracheno.
La messa a verifica della capacità del governo Barzani di resistere alle pressioni internazionali ha mostrato un intrinseca debolezza del Kdp laddove priva dell’appoggio internazionale. Nonostante questo, Baghdad non sembra aver raccolto i frutti di questa vittoria e la tenuta dei propri confini continua a dipendere più dalle scelte dei Paesi limitrofi, Siria, Turchia e Iran, che dalla propria capacità di gestione dello Stato.
In modo non troppo dissimile, l’Iran attraversa una fase particolarmente difficoltosa sia dal punto di vista interno sia per quanto riguarda il piano internazionale. Teheran ha dovuto confrontarsi nelle settimane passate con vaste proteste che hanno visto anche il chiaro coinvolgimento delle forze di opposizione curde. Dopo l’irrigidimento dei rapporti con gli Stati Uniti, inoltre, anche l’impegno nel contesto siriano e iracheno delle forze fedeli all’Iran ha attraversato fasi alterne. In questi frangenti si è assistito ad un totale raffreddamento dei rapporti con le milizie curde e a un avvicinamento tattico con la Turchia indotto, anche e forse soprattutto, dalla comune partecipazione al processo di pace siriano negli incontri di Astana.
Sotto questa luce si leggano anche le azioni di tre attori, fortemente interdipendenti: Siria, Stati Uniti e Russia. La narrazione degli eventi di poco precedenti all’attacco ad Afrin mostra con chiarezza come la difesa del diritto di autodeterminazione del popolo curdo possa essere utilizzata come merce di scambio per ottenere un personale vantaggio nelle dinamiche d’area.
Secondo quanto riportato da alcune agenzie di stampa, la Russia avrebbe chiesto alle forze curde di consegnare il territorio di Afrin al governo Assad in cambio del mantenimento del blocco dello spazio aereo. Davanti al rifiuto dell’amministrazione locale, il 19 gennaio, Mosca avrebbe deciso di ritirarsi, aprendo di fatto la strada all’attacco turco. Lo stesso giorno al colosso Gazprom veniva rilasciato il permesso definitivo per la costruzione del secondo ramo di Turkish Stream, gasdotto che dovrebbe consentire al gas russo di giungere sia in Turchia sia in Europa senza attraversare il territorio ucraino.
Pur evidenziando che un contratto di questo genere, nonostante di significativa rilevanza, non possa determinare le scelte di politica estera di una potenza come quella russa, il contesto di collaborazione tra Turchia e Russia assume, in base a questi eventi, maggiore credibilità. A questo si aggiunga che il supporto alle scelte di guerra ai curdi di Erdogan può approfondire la frattura tra Ankara e gli Stati Uniti. Un contrasto che, a partire dal fallito colpo di Stato, appare sempre più acceso e che in questi ultimi giorni si è reso evidente con la minaccia turca di arrivare fino a Mambij dove staziona, insieme alle forze curde, l’esercito statunitense.
Non stupisca, però, sul fronte opposto, che gli stessi Stati Uniti abbiano assunto un atteggiamento ambivalente verso il Pyd e i curdi in generale. Per quanto una delle motivazioni principali dell’azione turca ad Afrin venga identificata nella volontà di Washington di creare un esercito di confine che includesse tra le sue fila anche le forze SDF, all’indomani dell’attacco il Segretario di Stato USA Rex Tillerson avrebbe offerto la possibilità di una fascia di sicurezza di 30 km lungo il confine sotto il controllo turco.
Prescindendo dalle dinamiche belliche interne al territorio siriano che, comunque, come nel caso di Idlib, Manbij o Aleppo, sono fortemente correlate con questi eventi, gli effetti collaterali di questo attacco devono essere analizzati nell’ottica di una politica di potenza da valutare a livello globale. Sotto questa luce, una sconfitta delle forze turche ad Afrin potrebbe, come già avvenuto con la vittoria contro lo Stato Islamico a Kobane, permettere ai curdi di dimostrare che è possibile perseguire un progetto di cambiamento anche in mancanza di padrini internazionali. Nena News
Francesca La Bella è su Twitter: @LBFra
quest’articolo chiarisce diverse cose , ma spiega poco sulla politica a doppia faccia degli usa , ossia leggendo l’articolo sembra che sia naturale che gli usa il giorno prima affermano una cosa e il giorno dopo il contrario , non vedo una chiara condanna sulla vera responsabilità degli usa (non nuova a questo genere di schifezze di usare dei momentanei amici e poi abbandonarli alle fauci dei lupi come se niente fosse . è una lezione che le generazioni future dovrebbe tenere bene a mente !