Il presidente palestinese incontra oggi papa Francesco con cui ufficializzerà l’apertura dell’ambasciata della Palestina in Vaticano. Domani vertice a Parigi con oltre 70 paesi in cui verrà ribadita l’importanza della soluzione “a due stati”. Migliaia di cittadini palestinesi dello stato ebraico in piazza contro le demolizioni di case a Qalansawa
di Roberto Prinzi
Roma, 14 gennaio 2017, Nena News – I palestinesi potrebbero non riconoscere più Israele se il neo presidente statunitense Donald Trump dovesse spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme. A sostenerlo è il leader palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) in una intervista concessa ieri al quotidiano francese Le Figaro. “Ho scritto a Trump per chiedergli di non farlo – ha detto il capo dell’Autorità palestinese (Ap) – Se dovesse agire così, non solo gli Stati Uniti non avrebbero più la legittimità per svolgere un ruolo cruciale nel risolvere il conflitto, ma distruggerebbero anche la soluzione a due stati”.
Tuttavia, ha aggiunto Abbas, se ciò dovesse avvenire “avremo diverse opzioni che discuteremo con i Paesi arabi. Tra queste vi è quella di non riconoscere Israele. Ci auguriamo che non si arrivi a questo punto e che si possa lavorare con la prossima amministrazione americana”. Lunedì scorso l’agenzia palestinese Wafa aveva riferito che Abu Mazen aveva scritto a Trump spiegandogli che uno spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme avrebbe un “impatto disastroso sul processo di pace, sulla soluzione a due stati e sulla stabilità e la sicurezza dell’intera regione”.
Il presidente palestinese è da qualche giorno in Europa in un tour che lo porterà domani al vertice di Parigi dove più di 70 stati riconfermeranno il loro pieno sostegno alla soluzione “a due stati” secondo cui “uno stato palestinese vivrà in pace e sicurezza affianco a Israele”. Un summit molto importante che, ha precisato Abbas, “potrebbe essere l’ultima occasione” per giungere alla pace con la controparte israeliana.
Di tutt’altro avviso è il premier israeliano Benjamin Netanyahu che due giorni fa ha definito la conferenza di Parigi una “truffa palestinese sotto egida francese il cui scopo è quello di adottare altre posizioni anti-israeliane”. L’insediamento ormai prossimo (20 gennaio) del nuovo inquilino della Casa Bianca e della sua squadra pro-coloni preoccupa non poco i palestinesi che con più insistenza si guardano attorno alla ricerca di nuove alleanze. L’obiettivo è il presidente russo Putin il cui peso politico è cresciuto in Medio Oriente dopo il suo intervento diretto nella guerra civile siriana. Non è un caso infatti che il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, si trovava ieri a Mosca dove ha detto che Abbas è pronto a incontrare Netanyahu in Russia. Una nuova legittimazione per lo “Zar” che non pochi attori mediorientali considerano un partner più affidabile rispetto allo Zio Sam dopo gli orrori presidenziali di Bush junior e i fallimenti obamiani.
L’iniziativa diplomatica dell’anziano presidente palestinese non si limita alla Russia però. Oggi, infatti, incontrerà a Roma papa Francesco a cui chiederà il sostegno del Vaticano contro le intenzioni di Trump e con cui ufficializzerà l’apertura dell’ambasciata della Palestina in Vaticano frutto del riconoscimento ufficiale della Santa Sede dello Stato palestinese.
Giovedì sera Abu Mazen ha incassato il sì italiano del ministro degli Esteri Alfano alla soluzione a due stati, “l’unica percorribile” secondo Roma “per porre fine al conflitto israelo-palestinese”. Con Alfano Abbas ha discusso anche di terrorismo e colonie. “Gli atti di violenza e di terrorismo – ha detto il ministro italiano – infiammano il territorio e devono essere fortemente condannati”. La leadership palestinese, ha sottolineato il titolare della Farnesina, deve far seguire alla condanna degli atti violenti azioni e strategie concrete che mettano fine all’istigazione. Alfano ha poi confermato l’opposizione dell’Italia all’attività coloniale israeliana (una contrarietà, però, che si limita alle parole) e per il rispetto del diritto internazionale.
Alle grane Trump e Netanyahu, Abbas deve poi prestare molta attenzione anche alle divisioni che lacerano da anni il mondo politico palestinese. L’ultimo capitolo di questa saga infinita nasce della crisi energetica che sta colpendo la Striscia di Gaza: da alcuni giorni la popolazione della piccola enclave può disporre di sole 3 ore di elettricità rispetto alle 12 “normali”. Hamas punta il dito contro l’Autorità palestinese (Ap) e parla di “cospirazione”: sarebbe una mossa “concertata” (con chi?) per “rafforzare l’assedio” d’Israele ed Egitto sul piccolo lembo di terra palestinese. Per denunciare i presunti crimini di Ramallah il movimento islamico ha anche organizzato una marcia di protesta nel campo rifugiati di Jabalia nel nord della Striscia durante la quale alcuni manifestanti hanno bruciato le foto di Abbas e del primo ministro dell’Ap Rami Hamdallah.
Fatah, il partito del presidente, risponde per le rime attraverso il suo addetto stampa, Muner al-Jaghoub. Secondo al-Jaghoub, Hamas “non è capace di uscire fuori dalla crisi che ha causato”. “I palestinesi – ha spiegato – sono stufi del suo operato e chiedono libertà e dignità”. Durante le proteste a Jabalia, scrive l’agenzia Ma’an citando alcuni testimoni, le forze di sicurezza di Hamas avrebbero sparato in aria impedendo ai manifestanti di arrivare vicino alla compagnia elettrica. Due operatori dell’informazione che seguivano la protesta, il fotografo dell’Afp Mohammed al-Baba e il giornalista dell’Ap Fares al-Ghoul, inoltre, denunciano di essere stati picchiati dai membri della sicurezza.
Israele, intanto, continua a sparare. Target delle forze armate sono stati oggi i pescatori gazawi nel nord della Striscia che, sostiene Tel Aviv, si erano spinti oltre i limiti di pesca consentiti ai palestinesi. I proiettili non hanno causato feriti perché, si legge in una nota dell’esercito, erano solo di avvertimento affinché i pescatori tornassero nel (breve) tratto di mare a loro disposizione. Feriti, questi sì, da proiettili di acciaio ricoperti di gomma due palestinesi che protestavano ieri nell’appuntamento settimanale di Bilin (vicino a Ramallah, Cisgiordania).
Ma a manifestare ieri sono state anche migliaia di cittadini palestinesi d’Israele. A suscitare la rabbia del 20% della popolazione dello stato ebraico – che fa seguito ad uno sciopero generale indetto tre giorni fa dal “settore arabo” d’Israele – sono state le 11 case demolite dalle autorità israeliane questa settimana nella cittadina di Qalansawa (nell’area del “Triangolo”, a confine con la Cisgiordania). Tel Aviv giustifica le demolizioni affermando che gli edifici abbattuti sono costruiti senza permessi e che pertanto sono “illegali”. I palestinesi, dal canto loro sostengono che tali provvedimenti rientrano nella “consolidata politica israeliana volta a frammentare le comunità arabe e allontanarle dalla regione”. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir