L’avanzata dello Stato Islamico in Libia mobilita la comunità internazionale e induce l’Italia a cercare protagonismo mediterraneo ripartendo proprio dalla crisi libica. Gli ostacoli alla risoluzione della questione sono, però, numerosi e spesso dipendenti da fattori internazionali
di Francesca La Bella
Roma, 11 dicembre 2015, Nena News- L’Italia vuole tornare ad essere protagonista della politica internazionale. Sotto questa luce bisogna leggere i tre giorni di conferenze dedicate al Mediterraneo che si terranno a Roma durante questo fine settimana e che vedranno la presenza di numerosi rappresentanti della diplomazia internazionale, mediterranea e non. Domenica, inoltre, Roma ospiterà un summit che dovrebbe costituire la prima tappa di un formale percorso di risoluzione della questione libica. A tal proposito il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha dichiarato che la conferenza “servirà a dare un impulso, se possibile decisivo, alla creazione di un Governo di accordo nazionale. Una decisione che devono prendere le parti ma che noi vogliamo accelerare per contrastare i rischi di espansione del Daesh”.
Un forte impegno, dunque, del Governo italiano per uscire dallo stallo della situazione libica attraverso la ricerca di una convergenza di interessi internazionali che faccia da sfondo alla costruzione di un percorso interno di lungo periodo. Invitati di eccellenza saranno il Segretario di Stato statunitense John Kerry e il Ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, ma dovrebbero partecipare anche tutti i principali rappresentanti della politica europea, internazionale e dell’area nord-africana oltre al Rappresentante delle Nazioni Unite in Libia, Martin Kobler. La scelta della capitale italiana sembra essere considerata da più parti, in questo momento, obbligata a causa del posizionamento geografico della penisola, al centro del Mediterraneo e vicina alle coste libiche, e per i legami di lungo corso tra Italia e Libia.
Nei mesi passati molto si è discusso in ambito europeo sul ruolo dell’Italia come punto di approdo dei flussi migratori provenienti dal Nord Africa e sulla necessità di un intervento di tutela delle frontiere europee attraverso un incremento del pattugliamento delle acque del Mediterraneo che ha portato alla sostituzione dell’operazione Mare Nostrum con l’operazione Triton. Più volte all’ordine del giorno della Commissione Europea è stata inserita anche la questione interna libica in quanto la dissoluzione dello Stato libico e la condizione di latente instabilità venivano considerate le principali cause sia della possibile infiltrazione in Europa di soggetti terroristici attraverso i canali della migrazione sia del sempre maggiore radicamento nello Stato Islamico nel Paese. Ad oggi, alla luce dell’avanzata continua ed, apparentemente, inarrestabile dei gruppi libici facenti riferimento ad Abu Bakr Al Baghdadi e al progetto di Califfato ed al fallimento delle numerose iniziative tese alla costruzione di un Governo di unità nazionale in terra libica, la comunità internazionale sembra guardare con favore alla rinnovata intraprendenza italiana.
In questo senso possono essere lette le parole di Lavrov che, facendo riferimento alla notizia dell’agenzia di stampa iraniana Fars secondo la quale Al Baghdadi, dopo essere stato ferito in Siria, si troverebbe ora in Libia, ha sottolineato la vicinanza politica tra Mosca e Roma ed ha offerto l’aiuto del Governo russo all’Italia in eventuali iniziative dirette alla sponda sud del Mediterraneo. La cornice di un eventuale intervento sembra, però, al momento più diplomatica che militare nelle intenzioni del Governo italiano. Sia il Primo Ministro Matteo Renzi sia Gentiloni, nelle settimane di preparazione del summit, hanno sottolineato l’importanza di un forte impegno politico, assimilabile a quello espresso nel vertice di Vienna per la Siria, che porti ad un accordo tra i due principali attori della contesa libica, i Governi di Tripoli e Tobruk. In seguito, sotto tutela delle Nazioni Unite, il neonato Governo di unità nazionale dovrebbe garantire la stabilità e la sicurezza territoriale necessarie ad un efficace opera di contrasto dello Stato Islamico nel Paese.
Le difficoltà nella realizzazione di questo progetto sono, però, numerose ed imputabili sia a cause interne alla Libia sia ad interessi internazionali confliggenti. Dal punto di vista nazionale gli attori in campo non si limitano ai due Governi, entrambi di coalizione, ed allo Stato Islamico. Molti movimenti minori, ben radicati nei loro territori di origine come le popolazioni Tuareg e Tebu nel Fezzan, le milizie di Misurata o alcuni gruppi legati alla galassia di Al Qaeda, hanno stretto alleanze fluide a seconda della fase e sono difficilmente assimilabili ad un processo comune nazionale se non ponderato in base alle peculiarità locali. Gli stessi Governi di stanza a Tripoli e a Tobruk, dopo lunghi mesi di combattimenti ed il fallimento sia delle iniziative nazionali sia della mediazione ONU, anche a causa dello scandalo dei legami tra l’ex inviato Bernardino Leon e gli Emirati Arabi Uniti, potrebbero porre diversi limiti al negoziato.
Guardando all’aspetto internazionale, invece, possiamo identificare due piani di intervento: il primo d’area ed il secondo europeo e mondiale. Dal punto di vista regionale esisterebbero due assi a sostegno dei Governi libici guidati da Egitto e Emirati Arabi Uniti al fianco di Tobruk e Qatar a favore di Tripoli e gli eventi degli scorsi mesi sembrano sostenere questa ipotesi. Se l’Egitto del Generale al Sisi ha più volte ribadito il proprio impegno al fianco del Generale Khalifa Haftar e all’esercito regolare libico facente riferimento a Tobruk, l’opera di pressione degli EAU in Libia non è stata solo la causa dello scandalo Leon. Secondo alcuni documenti pubblicati dal New York Times, gli EAU avrebbero, infatti, più volte violato l’embargo, vendendo armi a milizie vicine al Governo di Tobruk. Per quanto riguarda il Qatar, infine, a settembre il Primo Ministro libico Abdullah al Thinni ha accusato il regno del Golfo di aver fatto atterrare aerei carichi di armi nell’aeroporto di Tripoli e, nella preparazione del summit di Roma, un certo risalto ha avuto l’invito sia all’Egitto sia al Qatar, considerati capofila dei due opposti schieramenti di sostegno internazionale agli attori libici. Gli interessi in campo sarebbero sia legati agli equilibri di potenza nell’area sia alla gestione degli ingenti depositi di idrocarburi del Paese, esportati ufficilmente in maniera decrescente sia a causa dei combattimenti sia per l’vanzata dello Stato Islamico.
Rispetto al piano europeo e mondiale, invece, la gestione della questione libica è stata lungamente improntata sulle emergenze da essa indotte. Se inizialmente, dopo la caduta del Generale Muhammar Gheddafi, gli interventi di stabilizzazione erano tesi a tutelare le imprese estere presenti nel Paese e a garantire i flussi di idrocarburi verso la sponda nord del Mediterraneo, con il succedersi degli eventi, le priorità identificate sono diventate il blocco dei flussi migratori e, negli ultimi mesi, il contenimento del radicamento di Stato Islamico e gruppi ad esso collegati. Nessuna attenzione è stata posta al destino della popolazione libica e le azioni militari prima e diplomatiche in seguito, hanno sostenuto, finanziato ed armato l’una o l’altra fazione a seconda del pericolo considerato più imminente. In questo senso, la politica internazionale ha operato in Libia per impedire che gli effetti dell’instabilità ricadessero al di fuori dei confini del Paese e non per creare le premesse per la soluzione delle cause della crisi stessa. Il summit di Roma, in quest’ottica, non sembra costituire una fase del cambiamento necessario.