Il 6 aprile 1994 il dittatore Habyarimana viene ucciso: comincia una strage lunga 100 giorni, un genocidio efferato che ha le sue radici nel colonialismo europeo.
di Federica Iezzi
Kigali (Rwanda), 23 aprile 2014, Nena News – Era il 1994. Sembrano svanire nella memoria individuale e collettiva gli orrori e le atrocità del genocidio rwandese. Tutto iniziò nella tiepida giornata del 6 aprile di quell’anno, quando l’aereo con a bordo l’allora presidente rwandese Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria.
Così da quella mite giornata primaverile, alla metà di luglio, per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati quasi un milione di persone. Lo spietato genocidio, ufficialmente, viene considerato concluso alla fine dell’Opération Turquoise, una missione umanitaria voluta e intrapresa dai francesi, sotto autorizzazione ONU.
Nello stesso anno veniva istituito il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, nato per cercare di riparare all’errore umano, ai crimini efferati, alle violazioni e alle violenze, all’annientamento. Gli attori del massacro sono da un lato gli hutu, addetti alla lavorazione della terra, dall’altro i tutsi, le vittime, il popolo errante di pastori. Al centro i twa, gli artigiani.
La concezione dell’esistenza di tre razze nella popolazione rwandese è stata solo un prodotto del colonialismo belga. Nel 1959 i belgi, dopo i colonizzatori tedeschi, diedero potere esclusivo nelle mani dei tutsi, escludendo gli hutu dalla vita intellettuale. Inventarono e realizzarono carte d’identità etniche rendendo inavvicinabili i due gruppi.
Il cambio di alleanza belga fu dovuto al solo fatto di evitare l’indipendenza del Paese. Infatti i tutsi iniziarono a guidare robuste lotte per l’indipendenza, allora i belgi nominarono bruscamente e in massa gli hutu ai posti di potere. Così, insediati in Rwanda sin dal XVI secolo e provenienti dall’Etiopia, i tutsi si trasformarono repentinamente in stranieri, prevaricatori, depredatori.
La popolazione fu divisa in due blocchi e la conseguenza finale più amara di quella politica divisionista fu il genocidio del 1994, che ufficialmente affonda le sue basi nel 1959. La campagna d’odio fu sostenuta dalla tristemente nota Radio-Télévision Libre des Mille Collines, che incitava la popolazione a “tagliare tutti gli alberi alti”, ricordando che le fosse erano solo a metà piene.
Nei 100 giorni del genocidio vennero gettati nelle insalubri acque del Nyabarongo, ingente affluente del Nilo, i corpi senza vita dei tutsi. Seguendo il corso dell’acqua, il sangue e i corpi sfigurati da colpi di machete, arrivavano in Etiopia. Gli hutu dicevano: “Così tornate da dove siete arrivati”.
Furono uccisi dall’esercito, da squadre irregolari e dalla popolazione civile: i dissidenti, gli hutu amici dei tutsi e chiunque non fosse d’accordo con la politica del massacro etnico.
Le numerose famiglie tutsi arrivarono da tutto il territorio, alla ricerca di un rifugio nella piccola chiesa di mattoni rossi. Nella chiesa cattolica di Sainte-Famille a Kigali, furono uccise più di 2000 persone per mano degli hutu. Ora solo ossa spaccate, crani sfondati ammucchiati a ridosso delle pareti, vestiti ammuffiti.
Lungo le strade compaiono d’improvviso grossi mucchi di pietre nere vulcaniche. Sotto mettevano i corpi dei tutsi raccogliendoli da vie, chiese e campagne. Fino al 1996 le colline che circondavano Kigali erano niente altro che sconfinati cimiteri, oggi sulla stessa terra sorgono le ville dei benestanti e gli agricoltori seminano patate e carote. Nena News