L’Arabia Saudita mostra un nuovo approccio al contesto yemenita che ambirebbe a tenere, politicamente e militarmente, unito il Paese da nord a sud, a demandare a soggetti interni la sicurezza e la fedeltà al modello saudita
di Francesca La Bella
Roma, 15 aprile 2016, Nena News – Le cronache di questo inizio settimana yemenita non sembrano incoraggianti. Nonostante tutti gli attori coinvolti si siano detti pronti ad avviare un processo di risoluzione del conflitto, numerose sono state le violazioni del cessate il fuoco proclamato lunedì e una strategia comune per il futuro dello Yemen sembra lungi dall’essere definita. In vista dei colloqui del 18 aprile in Kuwait possono, però, essere identificate alcune modifiche nella strategia della parti che lasciano presagire che questo stop ai combattimenti possa avere una valenza diversa rispetto ai precedenti tentativi.
Da un lato le forze Houthi nel nord del Paese, benché accusate di continuare la propria avanzata nelle provincie del nord con la copertura assicurata dal cessate il fuoco, sembrano essere disponibili a sedersi al tavolo negoziale ed obiettano alle critiche alle azioni di questi giorni con la necessità di difendere le proprie postazioni a fronte dei perduranti attacchi dell’Arabia Saudita. Dall’altra le forze saudite, dopo lunghi mesi di guerra, risultata costosa sia in termini economici che diplomatici per Ryad, sembrano aver optato per una nuova forma di intervento nel Paese.
La scelta del Presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi di sostituire Khaled Bahah. con il Generale Ali Mohsen al-Ahmar per la vice-presidenza e con Ahmed Obaid bin Daghr nella figura di Primo Ministro nascerebbe, infatti, dai colloqui tra Hadi e l’Arabia Saudita. La scelta delle due nuove figure, al-Ahmar legato alla mondo militare e con un forte seguito nel nord del Paese e Daghr come rappresentante del sud, sarebbe, secondo molti analisti, sintomo del cambio di strategia saudita. Un nuovo approccio al contesto yemenita che ambirebbe a tenere, politicamente e militarmente, unito il Paese da nord a sud, a demandare a soggetti interni la sicurezza interna e la fedeltà al modello saudita e a marginalizzare l’influenza delle milizie Houthi senza il coinvolgimento diretto delle forze armate di Ryad. La scelta dell’Arabia Saudita di cercare una soluzione pacifica della questione sarebbe, quindi, dettata più da motivazioni economico-politiche che da intenzioni umanitarie.
Vari fattori di contesto avrebbero, infatti, contribuito al mutamento di approccio saudita nell’area: la fine delle sanzioni contro l’Iran e i rinnovati rapporti tra Teheran e la comunità internazionale con il conseguente indebolimento del ruolo saudita nell’area; il declino dell’economia interna a causa del crollo del prezzo del petrolio e della guerra di posizione della stessa Ryad contro lo shale oil statunitense; la presa di posizione di alcuni attori internazionali, come alcune forze politiche all’interno del Parlamento britannico, contro l’ingerenza saudita in Yemen e le accuse di violazione dei diritti umani all’interno ed all’esterno dell’Arabia Saudita contro oppositori politici e milizie avversarie. La scelta saudita appare, dunque, dettata dal tentativo di ricerca di una exit strategy soft che permetta di eliminare i fattori di rischio nel coinvolgimento nel contesto yemenita senza che questo significhi la fine dei vantaggi nell’avere una chiara leadership fedele a Ryad alla guida di Sana’a.
La situazione dello Yemen è, però, ben più complessa di quanto potrebbe apparire a prima vista. In primo luogo, le condizioni di vita della popolazione sembrano ormai irrimediabilmente compromesse. Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2016, sarebbero stati raggiunti i 2,8 mln di Internal Displaced People (IDP- Profughi interni), il 54% della popolazione (circa 14 mln di persone tra i quali 8 mln di bambini) non avrebbero accesso al servizio sanitario, il tasso di mortalità infantile sarebbe in continua crescita così come il tasso di emigrazione dal Paese verso l’estero e, in particolare, verso il Corno d’Africa.
Sarebbe, inoltre, in atto una continua prolificazione di soggetti coinvolti nel teatro yemenita che comporterebbe notevoli difficoltà sia nel contestuale conflitto sia nella creazione di un percorso di risoluzione dello stesso. Oltre alle milizie Houthi nel nord, alle forze, armate e non, ancora fedeli all’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, ai lealisti del Presidente Hadi e del Primo Ministro Ahmed Obaid bin Daghr e all’Arabia Saudita, altri gruppi potrebbero, infatti, ricoprire un ruolo significativo nel mantenimento di una condizione di disequilibrio del Paese. Diversi report riferiscono, ad esempio, della presenza, seppur contenuta, di militanti dello Stato Islamico che starebbero cercando di ampliare la propria area di influenza all’interno del territorio yemenita andando, spesso, a scontrarsi con la forza jihadista di più longeva e significativa presenza nel Paese: AQAP, Al Qaeda nella Penisola Arabica.
Quest’ultimo gruppo avrebbe trovato in Yemen lo spazio e la forza per porsi come attore di primo piano proprio grazie al vacuum di potere conseguente agli attacchi sauditi nel Paese. Facendo base nella città di Mukalla, nell’area meridionale del Paese, AQAP sarebbe progressivamente riuscita ad allargare la propria area di azione, approfondendo il proprio radicamento e imponendo una coatta pacificazione che, nel complicato contesto yemenita, rischia di essere percepita come un’alternativa accettabile per la popolazione locale.
A questa galassia complessa si aggiunga una nuova variabile, sviluppatasi principalmente negli ultimi mesi. In alcune delle fazioni in lotta si sono presentati fenomeni di disgregazione che hanno portato alla nascita di piccoli gruppi con interessi e obiettivi politici divergenti come la resistenza di Taiz, città del sud salita agli onori delle cronache in questi giorni per le numerose violazioni del cessate il fuoco avvenute nel suo territorio, o alcuni milizie facenti base a Sana’a. La risoluzione di un conflitto così complesso in un contesto di disarticolazione economica e di perdurante crisi umanitaria necessiterà, dunque, di molto più di un piano negoziale, comunque debole, tra milizie Houthi, Governo Hadi e Arabia Saudita per implementare un processo di lungo periodo accettabile da tutte le parti e capace di risollevare le sorti economiche, politiche e sociali del Paese. Nena News
Francesca La Bella è su Twitter: @LBFra