Nonostante il voto favorevole degli altri 14 membri del Consiglio di Sicurezza, Washington ha bloccato ieri l’approvazione della risoluzione di condanna del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele. I palestinesi si rivolgeranno ora all’Assemblea Generale. Il vice presidente statunitense Pence, intanto, rimanda per la seconda volta la visita in Medio Oriente
di Roberto Prinzi
Roma, 19 dicembre 2017, Nena News – Gli Stati Uniti hanno posto ieri il veto alla risoluzione su Gerusalemme presentata dall’Egitto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dopo il recente riconoscimento americano della Città Santa come capitale d’Israele. Il voto però, più che essere espressione della forza di Washington, rappresenta il suo totale isolamento internazionale. Dei 15 membri del Consiglio, infatti, 14 (tra cui Italia, ma soprattutto Francia e Gran Bretagna) hanno votato a favore del testo spiegando che il “consenso internazionale” su Gerusalemme va difeso e il suo status va discusso solo attraverso negoziati e non con decisioni unilaterali.
Non citando mai espressamente Trump, la risoluzione formulata dagli egiziani – “un buon testo” secondo l’inviato francese all’Onu Francois Delattre – esprimeva “profondo dispiacere per le recenti decisioni relative allo status di Gerusalemme” e ribadiva che “ogni decisione o azione che mira ad alterare il carattere, lo stato o la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non ha effetti legali e deve essere resa nulla in conformità con le risoluzioni pertinenti del Consiglio di Sicurezza” invitando perciò gli Stati Uniti “ a non stabilire missioni diplomatiche nella Città Santa di Gerusalemme”.
Il veto Usa è stato subito accolto con gioia dal premier israeliano Benjamin Netanayhu. In un video messaggio, il leader del Likud ha rivolto parole al miele nei confronti del presidente americano: “Nella festa (ebraica) di Hanukkà hai acceso la luce della verità e cacciato il buio. Uno trionfa su molti, la verità prevale sulla menzogna. Grazie presidente Trump”. Di tutt’altro umore sono ovviamente i palestinesi. Un portavoce del presidente Mahmoud Abbas ha affermato che “questo veto inaccettabile minaccia la stabilità della comunità internazionale perché non la rispetta”.
Parere non condivise dal super falco dell’amministrazione Trump all’Onu, Nikki Haley. Secondo l’ambasciatrice statunitense, il problema non è la dichiarazione di Trump (eppure sta scatenando proteste in tutta l’area mediorientale), ma “simili risoluzioni che allontano la pace tra israeliani e palestinesi”. Haley ha citato quindi la condanna degli insediamenti coloniali approvata dalle Nazioni Unite lo scorso anno grazie all’astensione dell’amministrazione Obama. “Quello a cui abbiamo assistito qui al Consiglio di Sicurezza è un insulto, non sarà dimenticato” ha ammonito. Peccato che l’esempio “negativo” a cui ha fatto riferimento l’alleata di ferro di Tel Aviv non è né più né meno che il semplice rispetto del diritto internazionale che definisce “illegale” le colonie costruite a Gerusalemme est e in Cisgiordania. L’ambasciatrice americana ha poi ricordato come Washington abbia dato, più di ogni altro Paese al mondo, oltre 5 miliardi di dollari ai palestinesi a partire dal 1994 spiegando che suo ricorso al veto è stata una necessità per difendere “la sovranità americana e il suo ruolo nel processo di pace in Medio Oriente”.
Di quale pace e ruolo americano Haley parli risulta francamente difficile da capire. Il carrozzone diplomatico è fermo da oltre 3 anni e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha più volte ripetuto in questi giorni, a partire dal summit islamico di Istanbul della scorsa settimana, di non volere più gli Stati Uniti come mediatori dopo il loro riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele.
Ramallah non ha molte armi per contrattaccare diplomaticamente gli Usa. La comunità internazionale, ha detto Riyad Mansour, l’inviato di Ramallah presso l’Onu, troverà “altri contesti per [sostenere] la sua posizione”. L’Anp dovrebbe rivolgersi nei prossimi giorni all’Assemblea generale dell’Onu per chiedere l’approvazione della risoluzione bloccata ieri dagli statunitensi. L’esito del voto è scontato, ma non avrà effetti concreti sul terreno perché, a differenza di quello del Consiglio di Sicurezza, non sarà vincolante.
Il presidente Abbas continua a mostrarsi insolitamente deciso a non cedere alle pressioni Usa. Tuttavia, la sua fermezza presenta due punti critici: la cooperazione alla sicurezza con Israele (ancora in vigore nonostante le pressioni delle altre fazioni palestinesi) e la mancata riconciliazione nazionale con Hamas. Ieri la distanza tra i due principali partiti palestinesi è apparsa ancora una volta evidente quando il movimento islamico non ha partecipato ai lavori del Consiglio nazionale dell’Olp per valutare una possibile dichiarazione dello Stato palestinese come Stato esistente.
Abbas, intanto, si guarda intorno cercando di internazionalizzare quanto più possibile la questione palestinese. Oggi si recherà a Riyadh dove incontrerà il re saudita Salman. Un incontro che si preannuncia non affatto semplice: sebbene non ancora ufficialmente, infatti, il sovrano saudita è sempre più uno stretto alleato di Israele in chiave anti-iraniana.
Non arriverà invece oggi nella regione il vice presidente Usa Mike Pence: la Casa Bianca ha rimandato per la seconda volta la sua visita in Medio Oriente spostandola a metà gennaio. Ufficialmente perché la presenza di Pence a Washington potrebbe essere utile per far passare la riforma fiscale di Trump al Senato. Gli ufficiali americani smentiscono categoricamente che la sua mancata partenza sia in qualche modo collegata alle proteste scoppiate in Medio Oriente dopo la loro controversa decisione su Gerusalemme. Tuttavia, il secondo cambiamento di programma degli americani non può essere casuale. Soprattutto alla luce dell’isolamento internazionale di ieri degli Usa in sede Onu. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir