Il 17 dicembre 2010 il giovane Mohamed Bouazizi si dava fuoco, estrema protesta per gli abusi della polizia. Era l’inizio della rivoluzione dei gelsomini che in poco tempo si allargò al resto del mondo arabo. Ma di quella battaglia oggi resta solo frustrazione: se il paese ha garantito maggiori libertà politiche, sul piano socio-economico è l’ingiustizia a regnare. Disoccupazione giovanile, mancati investimenti, corruzione e servizi pubblici scarsi allargano il gap tra ricchi e poveri
della redazione
Roma, 17 dicembre 2020, Nena News – Dieci anni fa un giovane tunisino e il suo corpo aprivano a uno dei più grandi e ampi sconvolgimenti vissuti dal mondo arabo in decenni. Mohamed Bouazizi, venditore di frutta e verdura nella città di Sidi Bouzid, in Tunisia, si dava fuoco dopo l’ennesima vessazione subita dalla polizia. Era il 17 dicembre 2010, era la prima scintilla della rivoluzione dei gelsomini. E poi, a catena, inattese e travolgenti, si accendevano le piazze dei paesi vicini.
Subito ribattezzate primavere arabe, quelle esperienze uniche hanno portato a risultati immediati – la cacciata del dittatore tunisino Zine el Abidine Ben Ali e di quello egiziano Mubarak – ma a dieci anni di distanza i popoli coinvolti raccolgono i cocci di speranze di cambiamento mai avvenute. Se l’Egitto soffre, soffocato da una dittatura militare addirittura peggiore della precedente, la Tunisia è stata erroneamente esaltata come sola rivoluzione riuscita, la sola a essersi incamminata verso una forma di democrazia stabile.
Se è vero che alcune istanze sono state raccolte in termini politici, di pluralismo partitico, libertà della stampa e libertà personali, i motivi che più di altri spinsero milioni di tunisini in piazza a sfidare un regime apparentemente inamovibile sono ancora lì: l’ingiustizia sociale non è stata intaccata.
L’autoimmolazione di Bouazizi riempì subito le piazze di persone e di vittime della repressione, almeno 300. Ben Ali sarebbe fuggito in esilio meno di un mese dopo, il 14 gennaio 2011. Il 17 dicembre è diventato festa nazionale con il presidente Saeid che ha previsto anche un budget per organizzare un festival a Sidi Bouzid. Da giorni ci si prepara alle celebrazioni, o meglio alla rivendicazione.
Nella città di Bouazizi, Sidi Bouzid, poster per le strade recitano “Abbiamo preparato la via alla libertà, ce l’avete tolta”, “Gli slogan devono tornare azioni”. Perché, al di là delle maggiori libertà politiche, il senso profondo di questo anniversario è un bilancio di fallimento sul piano economico e sociale. Il gap tra grandi città e aree rurali non è stato intaccato, il tasso di disoccupazione è ancora altissimo (il 15% in media, oltre il 30% tra i giovani), l’emigrazione verso l’Europa è la sola via giudicata una possibile uscita dalla povertà. L’inflazione mangia i magri salari e la pandemia da Covid-19 ha solo aggravato una crisi economica che sembra strutturale.
Una realtà che incontra reazioni sul terreno. Le proteste ci sono ancora, coinvolgono diversi settori della società, dai medici agli insegnanti ma non solo. In molte città si sono svolte manifestazioni nelle ultime settimane, con scioperi e blocchi di strade e la richiesta di più posti di lavoro, miglioramenti dei servizi pubblici e investimenti.
La scorsa settimana il primo ministro Mechichi, nominato dopo l’ennesima crisi di governo, è stato accolto nella città di Jendouba al grido di “dimissioni”. Era andato a far visita alla famiglia di un giovane medico morto in un ascensore, evento che ha provocato la protesta di migliaia di dottori in tutta la Tunisia, convinti che a provocarne la morte sia stata la corruzione endemica che impedisce il rifornimento di attrezzature di qualità.
A peggiorare il senso di sconfitta e frustrazione è la mancata punizione dei crimini commessi sotto il regime di Ben Ali. Secondo la Commissione tunisina per la Verità e la Dignità, nata proprio per indagare le violazioni dei diritti umani dopo la rivoluzione, solo 54 funzionari del Ministero degli Interni furono licenziati nel 2011 (molti riassunti un paio di anni dopo) e molti altri funzionari delle istituzioni considerati responsabili di abusi hanno fatto carriera, anche se sotto inchiesta.
Poche le vittorie: la cancellazione dei servizi segreti noti per la gestione brutale delle carceri e il ricorso strutturale alle torture, la possibilità per le ong di fare visita a sorpresa nelle prigioni e il licenziamento di buona parte dei magistrati del periodo di Ben Ali. Ma la tortura è ancora praticata, la polizia compie ancora abusi contro attivisti e semplici cittadini e la magistratura soffre ancora di spazi grigi di corruzione e nepotismo.
In questo clima la Tunisia si prepara a un anniversario fondamentale per la sua storia, con la consapevolezza che quella rivoluzione si è fermata a metà strada. Nena News