L’iniziativa, lanciata martedì dalla ong statunitense Human Rights Watch, raccoglie le storie di 140 attivisti incarcerati per aver criticato i propri governi. Il mese prossimo, intanto, dovrebbe aprire la base navale britannica in Bahrain
di Roberto Prinzi
Roma, 3 novembre 2016, Nena News – Una piattaforma online per sostenere i dissidenti nei paesi del Golfo. A lanciare l’iniziativa è stata martedì la ong Human Rights Watch (HRW). Il sito raccoglie le storie di 140 attivisti incarcerati dalle autorità locali e si propone come obiettivo quello di rendere nota la loro battaglia politica in Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia saudita e Emirati arabi. Nel presentare la sua iniziativa, HRW ha accusato i governi del Golfo di rispondere alle critiche che ricevono on-line con “sorveglianza, arresti e altre punizioni arbitrarie” silenziando così qualunque forma di dissenso.
Il numero delle storie contenute nella piattaforma non è casuale: 140 è infatti un chiaro riferimento al limite di caratteri permesso da Twitter, il social che più degli altri ha portato centinaia di persone ad avere problemi con la giustizia nel Golfo. “Gli stati del Golfo sono impegnati in un assalto sistematico e ben finanziato alla libertà di parola sovvertendo così l’impatto potenzialmente di cambiamento rappresentato dai social media e da Internet” ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice dell’area del Medio Oriente di Human Rights Watch.
Whitson ha chiesto alle autorità dei Paesi del Golfo di implementare le riforme politiche piuttosto che imprigionare gli attivisti che esprimono le loro idee attraverso la rete. L’utilizzo dei social network, sottolinea l’organizzazione statunitense, è cresciuto rapidamente nei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Tuttavia, parallelamente è aumentato il controllo repressivo delle autorità su tutto ciò che circola su Internet. I governi, afferma HRW, avrebbero utilizzato i programmi e tecnologie sofisticate per monitorare le attività on line dei propri cittadini.
Sul banco degli imputati ci sarebbero in particolare alcune aziende occidentali e israeliane che avrebbero venduto alle autorità locali i software capaci di violare i diritti di privacy. “Sono centinaia i dissidenti dell’area, tra cui attivisti politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, avvocati e blogger ad essere stati imprigionati. Molti di loro dopo processi ingiusti e dopo essere stati torturati” denuncia Human Rights Watch che sottolinea come “le minacce, le intimidazioni, le aperture di indagini, le detenzioni, le torture e le revoche della cittadinanza” siano state le armi utilizzati dai governi per silenziare il dissenso.
Una repressione che non ha riguardato solo gli oppositori. Nel 2014, infatti, gli Emirati Arabi hanno messo nella blacklist anche due ricercatori di HRW “rei” di aver pubblicato un rapporto critico sulle condizioni lavorative nel ricco stato arabo. Di fronte alle ripetute accuse di violazioni dei diritti umani, il ministro della cultura e dell’informazione saudita, Bandar al-Ali, si è difeso lo scorso marzo al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. “Riyadh – ha dichiarato in quell’occasione – combatte la tortura in tutte le sue manifestazioni fisiche e morali attraverso una legislazione severa e con dei provvedimenti esecutivi”.
Di tutt’altro avviso invece è Human Rights Watch che cita i casi dell’attivista saudita Waleed Abu al-Khair, dell’emiratino Ahmed Mansour e del dissidente bahrenita Nabil Rajab come esempi di coloro che sono stati imprigionati “per aver esercitato la loro libertà di espressione”.
Proprio su Rajab non giungono buone notizie dal Bahrain: lunedì l’Alta corte penale ha deciso di posticipare al 15 dicembre il suo processo. La motivazione? Permettere maggiori indagini sul suo account di Twitter da dove cioè sarebbero partite le critiche al governo. Secondo il Centro bahrenita per i diritti umani, il rinvio dovrebbe dare il tempo all’Alta corte di assumere un esperto di crimini informatici che possa verificare se sia stato o meno proprio il noto avvista ad usare Twitter. Rajab, sottolinea il governo, è incriminato per aver promosso una “fuorviante e inaccurata campagna informativa sul Bahrain e per aver diffuso voci in tempo di guerra”. Il riferimento è al conflitto in corso in Yemen dove una coalizione di stati arabi (tra cui il Bahrain) guidati dall’Arabia Saudita sta combattendo dal marzo del 2015 i ribelli sciiti houthi.
Sulle violazioni dei diritti umani tacciono però i Paesi europei e gli Usa, solitamente solerti a denunciare i crimini commessi da stati “nemici”. Ma gli interessi in ballo per Bruxelles, Londra e Washington sono tanti in questa parte del mondo. L’arcipelago bahrenita, ad esempio, ospita la quinta flotta statunitense e il prossimo mese, ha scritto recentemente il britannico Daily Mail, aprirà nel porto di Mina Salman la base navale inglese. Quest’ultima, costata 40 milioni di sterline e finanziata quasi interamente (30 milioni) da Manama, ospiterà fino a 600 militari. Commentando la notizia, il segretario britannico alla difesa, Michael Fallon, ha assicurato che la nuova base “rinforzerà la stabilità nella regione”.
Di fronte a tanta “ospitalità” locale, è facile capire perché le violazioni dei diritti umani producano qui da parte occidentale solo “richiami” al rilascio dei dissidenti e non, come succederebbe da altre parti, a sanzioni e condanne internazionali. Rajab è stato arrestato lo scorso giugno per alcuni tweet anti-governativi pubblicati lo scorso anno. In uno di questi, aveva accusato le forze di sicurezza di aver torturato i detenuti. Due mesi fa, inoltre, è stato incriminato per aver danneggiato la reputazione del Bahrein. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir