Ad affermarlo è un rapporto dell’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Centre. Le associazioni dei diritti umani sostengono che le violazioni dei diritti dei lavoratori avvengono soprattutto alla fine della catena dei rifornitori utilizzati dai grandi brand
di Roberto Prinzi
Roma, 25 ottobre 2016, Nena News – Importanti marchi di moda non starebbero proteggendo i rifugiati siriani dagli abusi “endemici” che avvengono nelle aziende che fabbricano vestiti in Turchia. La denuncia è contenuta in uno studio pubblicato oggi dall’organizzazione benefica britannica Business and Human Rights Resource Centre. Secondo il documento, il lavoro minorile, i salari miseri e le condizioni lavorative definite “pericolose” sono fra i principali problemi che affrontano i rifugiati non registrati impiegati nel settore dell’abbigliamento.
Il rapporto, che analizza le misure che stanno prendendo le 38 principali griffe di moda mondiale presenti nel Paese per impedire che i siriani irregolari vengano sfruttati, giunge a conclusioni negative: “Mentre alcuni tra i principali brand, come Next e New Look, mostrano come sia un imperativo morale commercialmente sostenibile trattare i rifugiati con rispetto, la grande maggioranza [delle griffe] fa troppo poco. Dovrebbero proibire gli abusi all’interno delle loro filiere produttive e imporre ai fornitori condizioni lavorative decenti per i loro impiegati” ha detto il direttore esecutivo del gruppo, Phil Bloomer.
Non è la prima volta che le industrie dell’abbigliamento presenti nel Paese finiscono nell’occhio del ciclone. Un’inchiesta della Reuters quest’anno aveva già documentato come i bambini siriani lavorano in condizioni illegali contravvenendo alla legge turca sull’impiego che impedisce il lavoro sotto i 15 anni. Ieri il programma Panorama della BBC ha rivelato che le marche britanniche Marks & Spencer e l’Asos utilizzano lavoratori minorenni provenienti dalla Siria. La M&S ha provato a difendersi: “Non sapevamo che venivano impiegati lavoratori siriani. Siamo molto delusi da ciò, sono per noi dati estremamente gravi e inaccettabili”. Che tradotto vuol dire: non abbiamo responsabilità alcuna, la colpa è interamente dei nostri fornitori turchi che non avrebbero dovuti impiegarli.
Uno scarica barili che, secondo il Business and Human Rights Centre, è assai diffuso: molti brand della moda giustificano il loro immobilismo verso gli abusi commessi sui siriani semplicemente negando che esistano rifugiati impiegati nelle loro catene. Se il problema non lo vuoi risolvere, fingi che non esista, sembra essere il loro motto. In effetti basterebbero semplicemente dei controlli in più all’interno della catena produttiva. Ma davvero conviene alle grandi marche che tutto fili in regola? Un lavoratore registrato, regolare “non clandestino” pretende più diritti, è più tutelato e, in definitiva, costa di più per l’azienda. Alla luce di queste semplici considerazioni, siamo sempre sicuri che la difesa del M&S sia davvero credibile?
Prima dello scorso gennaio ai siriani arrivati in Turchia non venivano concessi permessi di lavoro. E se il lavoro “legale” è precluso dagli ordinamenti, ecco aprirsi l’autostrada dell’irregolarità. Con buona pace dei diritti, ben inteso. Essere impiegati illegalmente implica essenzialmente tre cose: minor salario, nessuna tutela per il lavoratore e, va da sé, maggiore possibilità per il datore di lavoro (in vero, più padrone che “dispensatore di impiego”) di ricattare il suo impiegato.
Qualcuno potrebbe suggerire che quanto accaduto lo scorso gennaio – la concessione da parte di Ankara dei permessi di lavoro anche i siriani – abbia rovesciato questo trend. Ma, stando al report di Business and Human Rights Resource Centrre, le cose non sono andate affatto così. “La vasta maggioranza dei rifugiati – si legge nello studio – continua a lavorare ancora senza protezioni legali e resta vulnerabile agli abusi”.
Certo, un leggero miglioramento sembra essere stato registrato: alcune marche hanno chiesto ai loro fornitori di aiutare i rifugiati non registrati ad ottenere i permessi di lavoro. “Un cambiamento positivo”, sottolinea la società britannica. In particolar modo, griffe come NEXT, New Look e Mothercare dispongono ormai di piani dettagliati per proteggere i rifugiati a cui viene garantito un salario minimo pure se impiegati senza avere un regolare permesso di lavoro.
Il problema dei permessi è però solo una delle questioni alla base delle “negligenze” delle grandi marche. La faccenda è più complessa di un provvedimento legislativo e, in parte, può essere sintetizzata nella seguente domanda: quanto i brand presenti in Turchia vogliono davvero controllare le condizioni lavorative all’interno delle loro filiali? A tal proposito, il report critica esplicitamente i metodi utilizzati per verificare il rispetto dei diritti dei lavoratori all’interno delle fabbriche: i controlli sarebbero spesso annunciati in anticipo e limitati al “primo livello dei rifornitori”. Molte note griffe mondiali fanno davvero di tutto per controllare i vari passaggi della catena produttiva?
Secondo le associazioni dei diritti umani no. Le ong sostengono che gli abusi e le violazioni dei rifugiati avvengono soprattutto alla fine della catena dei rifornitori utilizzati dai grandi brand. Qui, infatti, la produzione viene appaltata ad una parte terza, più misteriosa e nebulosa, che risulta molto più difficile da controllare. E laddove i controlli latitano, aumentano proporzionalmente le violazioni e gli abusi a danno dei lavoratori. Non tutte le marche procedono così, sia chiaro. Adidas e Puma stanno cambiando rotta verificando anche i passaggi intermedi del processo produttivo. Ma gli altri restano ancora molto indietro. Il documento dell’organizzazione britannica lascia poca speranza per l’immediato futuro se si considera che alcune marche hanno perfino rifiutato di rispondere alle sue domande. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir