L’amministrazione americana intende trovare un’alternativa alla base aerea di Incirlik, sotto il controllo congiunto turco-statunitense dal 1955, preferendo la Grecia o gli Emirati Arabi
di Marco Santopadre
Roma, 1 ottobre 2020, Nena News – Da alcuni anni ormai i rapporti tra Stati Uniti e Turchia – alleati storici ed entrambi membri dell’Alleanza Atlantica – si sono fatti progressivamente sempre più tesi. Il presidente turco Erdogan da tempo sta tirando la corda per affermare la sua agenda egemonica neo-ottomana, e Washington oscilla tra accondiscendenza e periodici altolà.
Gli screzi tra i due partner erano emersi soprattutto in occasione del fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, quando una parte dell’esercito turco tentò un maldestro putsch per scalzare Erdogan, che invece ne approfittò per mettere in atto un durissimo controgolpe e ripulire l’apparato statale, le forze armate, la magistratura e i media da centinaia di migliaia di oppositori.
Per quello sfortunato blitz il sultano accusò direttamente gli Stati Uniti, e non solo in quanto protettori del suo acerrimo nemico Fethullah Gulen, additato come la mente del golpe, ma anche per la parte attiva che gli apparati di Washington avrebbero avuto nell’evento.
La tensione esplose intorno alla base militare Nato di Incirlik – una delle più grandi basi aeree di Washington nel Mediterraneo, situata nella provincia di Adana a soli 110 km dal confine siriano – che venne a lungo assediata e isolata dai militari turchi. Da allora, in varie occasioni, da Washington sono filtrate notizie riguardanti l’intenzione, da parte dell’amministrazione USA, di trovare un’alternativa a Incirlik – sotto il controllo congiunto turco-statunitense dal 1955 in funzione antisovietica prima e antirussa poi – preferendo la Grecia o gli Emirati Arabi.
Nel frattempo la tensione con Ankara si è accentuata, soprattutto dopo che le truppe di Erdogan – e i miliziani jihadisti – hanno invaso il Nord della Siria ricacciando indietro le Forze Democratiche Siriane a guida curda, utilizzate a lungo come propria “fanteria” dagli Stati Uniti nel tentativo di rimanere in ballo sul fronte mediorientale dopo lo sbandamento dell’Esercito Siriano Libero e l’intervento russo a sostegno di Damasco.
Agli Usa non è andato giù, inoltre, l’acquisto dei sistemi anti-aerei russi S-400 da parte dei turchi, che dopo aver rischiato lo scontro diretto con Mosca hanno stabilito con la Russia un’alleanza – per quanto precaria e altalenante – nel quadrante siriano, venendo a patti anche con l’Iran, da sempre nel mirino delle amministrazioni statunitensi. Per dimostrare il loro disappunto gli USA hanno bloccato la vendita alla Turchia di alcuni caccia F-35.
Un altro elemento di frizione è stato rappresentato recentemente dalla dichiarata opposizione di Ankara al processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele (con cui peraltro la Turchia intrattiene consistenti rapporti economici) e i paesi del blocco sunnita, patrocinato proprio da Washington.
Nelle ultime settimane, poi, sarebbero state le aperture turche nei confronti della Cina ad indispettire ulteriormente Washington. In un’intervista al Washington Examiner, il capo della diplomazia USA ha citato esplicitamente come un problema la crescente penetrazione del gigante cinese Huawei – considerato da Washington una minaccia alla sicurezza nazionale e per questo attivamente boicottato – e di altre aziende di Pechino nell’economia turca. Pompeo ha puntato in particolare il dito contro l’accordo di Ankara con Huawei sul 5G, che consegnerebbe “una quantità significativa di dati (…) nelle mani del Partito Comunista Cinese” mettendo a rischio gli interessi militari statunitensi nell’area, e contro l’aumento della presenza economica e infrastrutturale cinese attraverso la Via della Seta.
I rapporti economici tra Ankara e Pechino sono in continua e rapida ascesa, e presto la Cina raddoppierà gli investimenti realizzati in Turchia dal 2016 al 2019, portandoli da 3 a 6 miliardi di dollari, ed anche le esportazioni turche nel gigante asiatico sono cresciute negli ultimi anni. Washington teme il vantaggio cinese sul piano tecnologico all’interno di una competizione globale sempre più accentuata e tenta di porvi un freno utilizzando la carta delle sanzioni e dello schieramento del suo imponente dispositivo militare.
Così, negli ultimi giorni, in occasione di una visita del segretario di stato americano Mike Pompeo in Grecia, si è tornati a parlare esplicitamente della possibilità sempre più concreta di un disimpegno statunitense dalla Turchia. Lunedì, in particolare, il quotidiano Time ha ribadito che Washington sta pensando di trasferire una parte del suo schieramento militare dalla base di Incirlik a quella cretese di Souda. Già alcune settimane fa il senatore repubblicano Ron Johnson, capo della sottocommissione per i rapporti con l’Europa, al “Washington Examiner” aveva spiegato, pur ribadendo “la loro piena presenza e cooperazione in Turchia”, l’intenzione di spostare in Grecia una parte delle forze attualmente dispiegate in Turchia, da lui definite “onestamente minacciate”. In effetti, quando nel dicembre del 2019 Washington minacciò di varare sanzioni contro Ankara, Erdogan reagì minacciando di chiudere due importanti basi USA sul suolo turco.
Certe dichiarazioni quindi non possono passare inosservate, soprattutto nel bel mezzo di una vera e propria escalation tra Turchia e Grecia sullo sfruttamento dei giacimenti di gas a largo di Cipro e in presenza di una crescente aggressività turca su vari fronti che Washington ha più volte avvertito di non gradire.
Un portavoce del Pentagono si è incaricato di smentire le dichiarazioni di Pompeo e del senatore Johnson, affermando che gli Stati Uniti non hanno intenzione di trasferire la propria base aerea di Incirlik, dove insieme a un consistente stormo di caccia e di aerei da rifornimento, Washington ha stoccato decine di ordigni nucleari. Non è la prima volta che, in materia di politica estera, il Pentagono e la Casa Bianca evidenziano linee di condotta differenti se non apertamente opposte. Il problema è che le continue concessioni di Washington al sultano turco nel tentativo di non perdere una importante pedina della Nato e non gettare Erdogan nelle braccia di Mosca non sono riuscite a impedire una progressiva autonomizzazione della politica estera e militare di Ankara, che spesso entra in collisione con gli interessi statunitensi nell’area.
E quindi non solo alla Casa Bianca ma ormai anche al Pentagono cresce il numero di coloro che ritengono urgente una strategia di disimpegno dall’ambigua Turchia e di rafforzamento dello schieramento militare nella più affidabile e stabile Grecia.
Di fatto, il disimpegno Usa da Incirlik è già iniziato, e nel frattempo Washington ha già cominciato a mettere in atto un deciso potenziamento della propria presenza in 3 diverse basi situate sul suolo greco, a partire da quella di Souda che sta diventando un hub strategico – logistico e di intelligence – nel Mediterraneo Orientale, proiettato verso il Medio Oriente ma anche verso il Nord Africa. Dal meeting tra Pompeo e il premier ellenico Kyriakos Mitsotakis e il ministro della Difesa Nikos Dendias (il secondo in meno di un anno) il capo della diplomazia Usa, proveniente da Cipro, non è uscito a mani vuote: il nuovo accordo di cooperazione siglato a dicembre prevede un vero e proprio raddoppio della base cretese, che diventerà la sede permanente della grande nave da guerra USS Hershel “Woody” Williams e della nuova portaelicotteri Usa con i V-22 Osprey a decollo verticale, per adattarla alle nuove esigenze delle missioni Eucom, Centcom e Africom. In cambio la Grecia potrà contare sul sostegno americano per ammodernare i suoi F16 e per ampliare la propria flotta da guerra, schierata a difesa delle isole dell’Egeo contro la crescente minaccia turca.
Che le relazioni tra la Grecia (che ha rifiutato il contratto con Huawei sul 5G) e gli Stati Uniti non siano mai state così idilliache, come ha esplicitamente affermato lo stesso Pompeo, sembra evidente. Dopo aver acquistato 18 caccia Rafale francesi, Atene potrebbe comprare anche gli F-35 di cui Washington ha bloccato la vendita ad Ankara, oltre a vari missili per elicottero e a un migliaio di carri armati che la Grecia schiererebbe alla frontiera orientale, proprio quella con la Turchia. Nena News