“Tra poco attraverseremo l’ultima foresta di terebinti e querce….torniamo a casa…” Così, nella poesia di Darwish, il terebinto segna la strada verso la casa del ricordo. Quella perduta nel “48.
di Patrizia Cecconi
Il terebinto, o Pistacia terebinthus, famiglia delle anacardiacee, è un albero molto longevo che si dice originario dell’isola di Chio da dove si sarebbe diffuso, molti millenni fa, su tutte le sponde del Mediterraneo, compresi i paesi del Maghreb e poi, spostandosi sempre più a oriente, avrebbe finito col naturalizzarsi fino all’Iran e anche oltre. In Palestina ce n’è una varietà autoctona, nata da un ibrido spontaneo con il lentisco. Il suo nome, secondo la classificazione risalente a Linneo, è Pistacia Palaestina e si distingue dall’altro solo per la leggera pubescenza delle foglie e per i grappoli di fiori più fitti.
Si tratta di pianta dioica, cioè che porta fiori maschili e femminili su individui diversi, e dai grappoli di fiori femminili che fioriscono in primavera verranno le piccole bacche che in una raffinata versione dello zaatar palestinese vengono essiccate, polverizzate e mescolate a timo, sesamo e sumac conferendo alla miscela un vago aroma di pistacchio.
Da vari millenni, oltre alle bacche, con le quali si produce anche un olio alimentare una volta detto “per i poveri”, si usano le foglie ricavandone un olio essenziale con proprietà antisettiche, antireumatiche, balsamiche ed espettoranti. Solo due mesi l’anno il terebinto resta spoglio, ma già alla fine dell’inverno i suoi rami si riempiono di germogli.
Ma la sua fama in campo officinale la deve soprattutto alla pregiatissima resina, conosciuta fin dall’antichità come “trementina di Chio” e ottenuta incidendo la corteccia. Già gli assiri la usavano per la cura di malattie femminili. Plinio la decantò come balsamica oltre che curativa di ascessi , dermatiti e ferite. Fino a un paio di secoli fa è stata ampiamente usata, oltre che come balsamica, come rimedio contro la calcolosi, le artriti e le sciatalgie. Un altro uso molto diffuso in passato era quello di farmaco naturale per rinforzare le gengive, sia masticandola pura, sia come enolito, laddove il vino non fosse vietato per motivi religiosi.
Osservato come elemento del paesaggio il terebinto per molti mesi l’anno arricchisce il panorama con le sue fronde lucenti, valorizzate da bacche rosa intenso che restano sui rami a lungo. Le sue foglie sono imparipennate e composte di molte coppie di foglioline. Queste spesso presentano delle galle, cioè delle escrescenze colorate a forma di baccello prodotte dalla puntura di un afide. Anche le galle in passato avevano il loro uso, sia contro le infiammazioni alle gengive, sia come tintura per le pelli.
Le sue radici sono fortissime, tanto da meritargli, in Italia, il nome dialettale di “spaccasassi” e traduzioni simili in altre lingue, proprio perché riesce a inserirsi nelle fessure delle rocce, spaccandole per radicarsi a fondo e restare unito alla terra resistendo anche al gelo e alla siccità dove altri alberi non riuscirebbero a sopravvivere: peculiarità piuttosto diffusa in molte piante che caratterizzano la flora palestinese, ma particolarmente spiccata nel terebinto, quasi fosse un destino condiviso col popolo che lo canta nelle sue poesie e lo utilizza nelle sue tradizioni.
Di questo albero parla anche la Bibbia in diversi libri. Nel libro del Siracide è paragonato alla divina sapienza in un versetto che recita: “Come un terebinto ho esteso i rami e i miei rami son rami di maestà e di bellezza.” Ne parla poi nel primo libro di Samuele, quando narra del gigante filisteo che nella valle del terebinto terrorizzava gli eserciti ebraici e che venne sconfitto dal piccolo Davide, prescelto dal Signore a sostituire Saul, ripudiato perché aveva disobbedito al suo ordine di sterminare tutto il popolo degli Amaleciti. Davide invece, racconta sempre la Bibbia, non aveva scrupoli e sapeva uccidere uomini a centinaia nonostante la giovane età, e ovviamente anche dopo. Sempre per la gloria del Signore! Così ci racconta il testo sacro.
E, ancora, il terebinto è citato nel libro dei Giudici, quando l’angelo del Signore si presenta a Gedeone, il quale poi costruirà un altare alla Pace nel nome del suo dio. Insomma, il terebinto è presente nell’Antico Testamento sia nelle pagine più spietate che in quelle meno feroci a testimoniare che questa pianta, capace di vivere centinaia d’anni e di resistere come poche alle avversità climatiche, apparteneva già alla terra di Canaan prima che ebrei e filistei ne prendessero possesso.
Anche il Corano ne parla, ma solo citandolo come albero.
I suoi “cugini” più stretti sono il lentisco, quello col quale il terebinto palestinese si è naturalmente ibridato, e il pistacchio, quello che nella cucina mediorientale riesce a dare meraviglie e i cui semi riempiono dolci stupendi che da quella sponda del Mediterraneo, attraverso gli arabi nel IX secolo, sono arrivati nella nostra Sicilia rendendone Bronte patria universalmente riconosciuta grazie al generoso terebinto che al pistacchio offre le sue radici.
Ma di questo nobile cugino, forse nato in Persia e che dalla Persia ha camminato conquistando senza spargimento di sangue ogni territorio e poi ha attraversato il mare fino ad arrivare a esprimersi al massimo livello nella sciara di Bronte, parlerò alla prossima puntata. Nena News