Ieri la prima pietra. Netanyahu soddisfatto: “Nessun governo è migliore del nostro per i coloni”. Sugli insediamenti l’Onu punge Tel Aviv, ma per l’ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite il vero problema è Hamas che va messo sulla blacklist. L’ex premier israeliano Barak, intanto, denuncia: “Siamo su un pendio scivoloso verso l’apartheid”
di Roberto Prinzi
Roma, 21 giugno 2017, Nena News – La prima pietra è stata messa ieri: la costruzione di una nuova colonia nei Territori occupati dopo 25 anni non è più uno slogan politico, ma realtà. Ad annunciare la notizia dell’edificazione di Amichai (questo il nome scelto) non poteva essere che lui, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. I toni sono ovviamente trionfalistici: “Come avevo promesso, i lavori sono iniziati per una nuova comunità degli evacuati [dell’avamposto] di Amona. Dopo decenni, ho il privilegio di essere il primo premier a costruire una nuova comunità in Giudea e Samaria [Cisgiordania, nda]”. Bibi è euforico: “Non c’è stato, né ci sarà un migliore governo per le colonie che quello nostro”.
Del resto, come dargli torto. Il suo esecutivo è stato di parola: quando lo scorso febbraio fu demolito l’avamposto di Amona perché costruito su terra privata palestinese, Netanyahu aveva promesso subito una compensazione per i suoi residenti. Israele riconosce 196 insediamenti nella Cisgiordania occupata, ma, teoricamente, considera gli outpost come quelli di Amona illegali. Teoricamente, però, perché in non pochi casi lo stato ebraico ha chiuso entrambi gli occhi al proliferare di queste piccole comunità di coloni in terra palestinese. Ciò è apparso evidente a inizio anno quando il governo ha approvato la “Legge della regolazione” che riconosce retroattivamente decine di avamposti coloniali.
In realtà, denunciano i palestinesi, i “nuovi” insediamenti in costruzione sono due, non uno come afferma Tel Aviv. Accanto a quello annunciato, infatti, ci sarà quel di Shvut Rachel orientale che sarà situato tra l’esistente colonia di Shvut Rachel e l’appunto nascituro Amichai. Israele, però, si difende: Shvut Rachel orientale è un “quartiere della colonia di Shilo” e, pertanto, non è una nuova colonia. Peccato che la distanza (non poca) tra i due suggerirebbe il contrario.
Che in atto sia una specie di “combo” coloniale, in realtà, ne sono convinti anche gli israeliani di Peace Now. L’ong aveva già lanciato l’allarme un mese fa: “Con il pretesto di una compensazione per i coloni di Amona, due nuove colonie situate l’una vicina all’altra stanno nascendo”. L’organizzazione non governativa, inoltre, osservava come l’area scelta per la loro edificazione non sia affatto casuale: è infatti “un punto focale per la conquista di terra” da parte dei settler dove “i palestinesi non possono accedere”. Di tutt’altro umore, e non poteva essere diversamente, sono i residenti di Amona: “Diamo il benvenuto all’inizio dei lavori e ci auguriamo che possano continuare senza subire pause” ha detto un loro rappresentante al portale Ynet. “L’intera popolazione si aspetta che il primo ministro non permetterà a nessuno– siano essi attivisti di sinistra, ufficiali o l’esercito – di smettere di lavorare. Questo successo non può trasformarsi in un fallimento né in una farsa. Il popolo è già stato deluso. Le responsabilità è del governo e del suo leader”.
I coloni possono dormire sonni tranquilli perché a difendere le loro istanze non c’è soltanto il rumoroso “Casa Ebraica”, descritto troppo semplicisticamente dalla stampa come “partito dei coloni”. Non perché non lo sia, ma perché non lo è da meno il Likud del premier Netanyahu. Non passa settimana ormai che il primo ministro non esalti la presenza degli insediamenti in territorio palestinese. A inizio mese, durante la commemorazione dei 50 anni dalla Guerra dei Sei giorni, il premier è stato chiaro a tal riguardo quando ha promesso “di proteggere l’impresa coloniale” e ha affermato che le costruzioni sarebbero continuate “in tutte le parti della Giudea e Samaria, sia dentro che fuori gli insediamenti”. Se non è un messaggio d’amore per i coloni, poco ci manca.
E così 25 anni dopo l’ultima colonia ecco Amichai il cui progetto prevede (per ora) 102 unità abitative a cui si affiancheranno 1.400 unità coloniali. Israele programma, annuncia e costruisce con tranquillità sapendo che nessuno al momento può ostacolarla. Certamente non rappresentano un freno alla brama edilizia israeliana il diritto internazionale e quella risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che lo scorso dicembre dichiarava tutti gli insediamenti illegali. Emblematico quando accaduto ieri. Tel Aviv annuncia la costruzione ad Amichai e dopo qualche ora giunge l’ennesimo rimbrotto dall’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. Mladenov ha parlato di “flagrante violazione” della legge internazionale e ha snocciolato alcuni dati: dallo scorso 24 marzo lo stato ebraico ha annunciato piani per circa 4.000 unità abitative e pubblicato 2.000 bandi, più di quanto avesse fatto nei precedenti 3 mesi. Parole dure, ma che suonano ormai ridondanti al Palazzo di Vetro. Soprattutto quando non tutti la pensano così.
Tra questi vi è l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, che ieri ha esonerato Israele da qualunque responsabilità per la crisi umanitaria in corso a Gaza e ha chiesto al Consiglio di Sicurezza una risoluzione per bannare Hamas e punire i suoi sostenitori. “Credetemi, Israele non ha causato i problemi nella Striscia, anche se qui è solitamente l’unica sospettata” ha detto l’alta diplomatica americana che ha poi puntato il dito contro il movimento islamico, principale causa della “terribile crisi umanitaria” dei gazawi.
Haley, però, farebbe bene ad aprire gli occhi e a notare che sempre più dall’interno del mondo israeliano (non solo della sinistra) giungono durissimi attacchi al governo Netanyahu. Alla lista dei critici delle politiche israeliane, si è unito da tempo l’ex premier israeliano Ehud Barak. Intervistato dalla tv tedesca Deutsche Welle, Barak ha detto che l’attuale situazione israeliana “non è da apartheid” eppure il Paese “è su un pendio scivoloso” verso quella direzione. Per l’ex laburista sono due gli scenari che attendono Israele se quest’ultimo dovesse decidere di controllare “l’intera area dal Mediterraneo al fiume Giordano”. Il primo è quello in cui i palestinesi godranno degli stessi diritti degli israeliani. Ma a quel punto lo stato ebraico diventerà “uno stato binazionale con una maggioranza araba e ci sarebbe una guerra civile”. La seconda possibilità è la strada che Tel Aviv sta percorrendo: “un pendio scivoloso verso l’apartheid”.
Nel rimpallo delle dichiarazioni politiche, c’è il dramma umano dei palestinesi. Ieri pomeriggio le forze armate israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese vicino al checkpoint di Qalandiya tra Ramallah e Gerusalemme. Secondo la versione israeliana, l’aggressore, il 23enne Bahaa Imad Samir al-Hirbawi di Eizariya, ha provato ad accoltellare alcuni soldati israeliani che, vistisi minacciati, hanno risposto uccidendolo. Il portale Ynet scrive che i militari stavano compiendo un “controllo di routine”.
Continua intanto la punizione collettiva per gli abitanti del villaggio cisgiordano di Deir Abu Mashaal, il luogo di residenza dei tre esecutori dell’attacco di venerdì a Gerusalemme. Il villaggio, raccontano i residenti, è di fatto chiuso dalle autorità israeliane ed è soggetto ai continui blitz delle forze armate di Tel Aviv. Secondo il Centro dei diritti umani palestinese, 22 persone (i membri della famiglia dei tre attentatori) resteranno senza case per le demolizioni punitive israeliane nonostante non vi siano prove di colpevolezza contro di loro. Discorso diverso, invece, per la mamma di uno degli aggressori che è stata accusata oggi dalla polizia israeliana di “essere sostenitrice di un gruppo terroristico ed è sospettata di aver pianificato il crimine”. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir