Campi improvvisati ai confini con Israele e Giordania. Damasco riprende il 60% del sud. Il 2018 l’anno con il più alto numero di profughi siriani. E ad Afrin la Turchia distribuisce nuove carte d’identità ai residenti che tornano: Ankara li classifica come «immigrati»
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 3 luglio 2018, Nena News – Nel sud della Siria è in corso un esodo, l’ennesimo. La guerra non è finita e a raccontarlo sono le immagini che arrivano dalle province meridionali di Deraa e Quneitra: 270mila civili, più di un terzo della popolazione totale della zona, è scappata dai combattimenti tra esercito governativo e opposizioni islamiste e qaediste.
A due settimane dal lancio della pesante controffensiva di Damasco sul sud della Siria, penultima enclave jihadista insieme a Idlib, a nord-ovest, il governo ha ripreso il 60% della provincia di Deraa. Raid aerei e avanzata terrestre a cui i gruppi islamisti rispondono con missili e artiglieria pesante: sono 130 i morti civili dal 18 giugno.
A nulla è finora valso il negoziato imbastito da Mosca, sponsor governativo: le opposizioni non intendono cedere le armi, requisito russo al cessate il fuoco. E la gente scappa: file interminabili di auto, motorini e camion lasciano Deraa e Quneitra per il confine meridionale e orientale. Di fronte, le frontiere israeliane e giordane, serrate. Nascono così campi improvvisati, qualche tenda, coperte a fare ombra nel caldo torrido di inizio estate.
Il governo israeliano ha inviato aiuti umanitari, ma la linea resta la stessa degli ultimi sette anni: nessun rifugiato viene accolto, mentre il resto del Medio Oriente esplode (domenica il primo ministro Netanyahu definiva «difesa dei confini» la chiusura ai profughi). Anche Amman ha mandato tende e medicine ma dopo aver accolto 660mila rifugiati ha chiuso le porte due anni fa.
Eppure sono 70mila gli sfollati ammassati al valico di Nassib con la Giordania, con accesso quasi nullo ad acqua e cibo: «Abbiamo perso i nostri figli, le nostre case. Siamo seduti qui, a terra, senza nemmeno dell’acqua per lavarci le mani», dice una donna all’Afp. E così, con i suoi 920mila rifugiati in sei mesi, il 2018 è l’anno peggiore – secondo i dati Onu – in termini di sfollamento interno in Siria.
Con i confini ormai chiusi da ogni lato, i siriani cercano riparo all’interno, spesso senza aiuti. Solo tre mesi fa era toccato al cantone a maggioranza curda di Afrin, nell’estremo ovest siriano: oltre 300mila sfollati dall’occupazione delle truppe turche e le milizie islamiste fedeli ad Ankara. Una crisi che non ha mai trovato soluzione, con centinaia di migliaia di persone bloccate nel deserto di Shehba.
Per chi è rimasto la situazione non è molto migliore: secondo quanto denunciato ieri dall’agenzia curda Anf, la nuova amministrazione del cantone, con cui la Turchia ha soppiantato la rappresentanza nata con il confederalismo democratico di Rojava, starebbe distribuendo nuove carte d’identità in cui i residenti che tentano di rientrare vengono classificati come «immigrati».
Se confermato, si tratta solo dell’ultima misura assunta per stravolgere la demografia della zona. Mentre a sud si fugge, a nord rientrano i rifugiati dalla Turchia che Ankara ammassa ad Afrin. Ma non ci sono solo loro: buona parte delle case del cantone è stata occupata dai miliziani islamisti e le loro famiglie e da quelli evacuati a marzo da Ghouta est, dopo l’accordo con Damasco. Miliziani di Jaysh al-Islam, non «ricollocabili» a Idlib per le tensioni con il gruppo leader, l’ex al-Nusra.
Ieri l’esercito turco ha annunciato la cessione dei propri poteri di controllo a un nuovo corpo di polizia, 2mila uomini addestrati e armati e fedeli ad Ankara. E se i media filo-governativi raccontano delle attività umanitarie turche (Yeni Safakriporta della distribuzione di cibo a 4mila famiglie di Afrin, l’agenzia di Stato Anadolu dell’assistenza sanitaria disponibile 24 ore su 24), i locali dipingono un’altra realtà: chi è accusato di legami con le unità di difesa Ypg/Ypj non viene fatto rientrare; case, fattorie e negozi sono stati confiscati dai miliziani (che hanno scritto alle pareti i loro nomi con lo spray, denuncia Human Rights Watch); nuove regole vengono imposte, tra cui un codice di vestiario per le donne, passate dalla gestione paritaria della città al velo «suggerito» dai cartelli appesi da Ahrar al-Sharqiya, milizia islamista dell’Esercito libero siriano.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati