L’esercito siriano minaccia ripercussioni dopo i razzi caduti sulla base aerea. Tel Aviv non commenta, ma non è la prima volta che interviene nella guerra, fonte di destabilizzazione che lo rafforza nella regione
della redazione
Roma, 13 gennaio 2017, Nena News – Ci saranno ripercussioni. È il messaggio che ha mandato poche ore fa l’esercito governativo siriano a Israele, accusato da Damasco di aver colpito con dei missili una delle principali basi aeree militari di Damasco. Durante la notte sono state sentite delle esplosioni e alcuni video hanno mostrato fiamme e una densa colonna di fumo alzarsi in cielo.
La base colpita è quella di Mazzeh, poco fuori la capitale siriana, utilizzata dalle guardie repubblicane, corpo di élite dell’esercito. Mazzeh si trova a pochi chilometri dal palazzo presidenziale dove risiede il presidente Assad. Secondo quanto riportato dalla tv di Stato siriana i missili sarebbero stati lanciati dal nord di Israele, vicino il lago di Tiberiade, poco dopo la mezzanotte.
“Il comando dell’esercito siriano avverte Israele di ripercussioni per l’attacco e ribadisce di continuare la lotta contro il terrorismo e di togliere le armi ai suoi perpetratori”, si legge nel comunicato emesso dai militari. Israele non commenta. Ma non è la prima volta che Tel Aviv viene accusata di simili attacchi contro il suolo siriano. L’ultimo in ordine di tempo risale al 7 dicembre quando il governo siriano affermò che jet israeliani avevano lanciato missili verso Mazzeh. A fine novembre altri jet avrebbero lanciato missili vicino Damasco, stavolta dal cielo libanese.
In passato, durante gli ultimi anni di guerra siriana, più volte Israele sarebbe intervenuto nel paese. I target sono stati per lo più convogli di armi e posizioni militari di Hezbollah in Siria, il movimento libanese che ha fin dall’inizio sostenuto direttamente l’alleato Assad. Agli interventi militari si aggiungono quelli medici: in un rapporto Onu della fine di dicembre del 2014, le Nazioni Unite parlarono di stretta collaborazione tra Israele e le opposizioni anti-Assad, concentrate nel sud della Siria al confine con il Golan occupato da Tel Aviv nel 1967. Enclave “ribelle”, la zona di Quneitra è stata a lungo controllata dall’Esercito Libero Siriano per poi divenire – come in molti altri casi nel paese – roccaforte di milizie islamiste a partire da Jabhat Fatah al-Sham, i qaedisti dell’ex al-Nusra.
Secondo il rapporto Onu la collaborazione sarebbe cominciata almeno 18 mesi prima del dicembre 2014 e avrebbe riguardato nello specifico il trasferimento di oltre mille miliziani feriti negli ospedali nel nord di Israele. Assistenza umanitaria, dunque, al di là del confine, ma anche assistenza militare: secondo l’Undof – la forza Onu presente nella zona dal 1974, dalla guerra dello Yom Kippur – l’esercito di Tel Aviv avrebbe consegnato alle opposizioni anche armi.
Non è un mistero la posizione israeliana nei confronti del governo di Damasco, visto come parte del triangolo sciita di resistenza Hezbollah-Siria-Iran. Un arcinemico la cui destabilizzazione non fa che rafforzare Israele in una regione allo sbando preda di settarismi interni e gruppi islamisti foraggiati da attori statali che con Tel Aviv hanno sempre avuto buoni rapporti, più o meno palesi. Turchia, Giordania, Arabia Saudita. Improbabile, dunque, che Damasco reagisca ai missili. In un periodo di debole tregua, con le opposizioni in difesa, trascinare Israele nel conflitto sarebbe un atto suicida.
Soprattutto in vista dell’apertura del negoziato turco-russo del 23 gennaio in Kazakistan. Oggi il Ministero degli Esteri russo ha espresso fiducia verso il dialogo, definendolo il trampolino per il processo politico avviato dall’Onu, ma in stallo da mesi.
Ma restano molti dubbi. Se la tregua nazionale sembra reggere, gli scontri intorno Damasco – in particolare nella valle di Wadi Barada, dove si trova la principale sorgente d’acqua per la capitale – non cessano. Da giorni le opposizioni, dall’Esercito Libero agli islamisti del Fronte Islamico, dicono di aver sospeso la partecipazione al tavolo di Astana. Ma in realtà non è ancora chiaro chi sia stato invitato e chi no, chi siano considerati da Russia e Turchia opposizioni legittime e quali no.
Per la Turchia la certezza è l’esclusione dei kurdi di Rojava, ribadita nei giorni scorsi. Sono accusati da Ankara di “terrorismo”. Eppure sono la forza più efficace contro lo Stato Islamico e gli unici ad aver imbastito un processo democratico nel nord della Siria. Nena News
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