Ricerche e opere artistiche svelano la vera faccia della colonizzazione italiana nel paese nordafricano: le atrocità, i campi di concentramento, la Libia di oggi. Alla ricerca delle proprie origini
di Naima Morelli, Roma – Middle East Eye
Traduzione di Elena Bellini
Roma, 12 novembre 2019, Nena News – Mentre la fotocamera del suo telefono riprende le strade fiancheggiate da edifici italiani razionalisti costruiti tra le due guerre mondiali, sembra che Mahmoud stia guidando per Roma. Ma, quando dietro l’angolo appare una moschea, è chiaro che non si tratta di Roma. Siamo a Tripoli.
Il filmato fa parte del documentario di Martina Melilli My home, in Libya (2018). Mahmoud, giovane studente di ingegneria libico, è uno dei personaggi principali. Non si vede mai il suo volto, perché nel documentario la regista comunica con lui via WhatsApp.
Gli altri protagonisti sono i nonni di Martina Melilli. Nati nella Libia degli anni ’30, quando il Paese era una colonia italiana, vissero a Tripoli prima di essere costretti a lasciare il Paese nel 1969, dopo il colpo di stato di Muammar Gheddafi. Il padre della Melilli è nato a Tripoli.
Mentre riprende la casa dei nonni vicino a Padova, in Italia, Melilli traccia una mappa dei luoghi del loro passato nel quartiere italiano di Tripoli, costruito durante il periodo fascista italiano (1922-1945). Chiede, quindi, a Mahmoud di filmare gli stessi luoghi come sono oggi, trasportandoci in un Paese lacerato dal conflitto e dalla violenza dal 2011, e difficilmente accessibile per gli europei.
La loro relazione si sviluppa via internet, quando iniziano a condividere le loro angosce e i loro mondi interiori. Vediamo subito come il film accorcia le distanze tra due vite radicalmente diverse.
“Amo gli italiani. Guardo Rai 1 tutti i giorni”, dice Mahmoud all’inizio del film, aggiungendo che “molti anziani parlano italiano”. Poi rimpiange la fine di un’epoca in cui diverse religioni e nazionalità vivevano una accanto all’altra. “Amo Tripoli. Ho bisogno di vedere la stessa Tripoli di una volta, quella città meravigliosa con la gente mescolata, italiani, ebrei, cristiani, musulmani”.
‘Una di loro’
Il motivo principale che ha spinto Melilli a realizzare My Home, in Libya è stato il voler comprendere la propria identità e definire la propria appartenenza in senso ampio. Per lei, è un molto più importante che capire cosa significhi essere italiana o europea.
Nel 2010 era a Bruxelles come studentessa Erasmus, viveva nel quartiere turco-marocchino: “Ogni mattina – racconta – andavo a prendere il mio tè alla menta da un signore che mi parlava sempre in arabo”, forse pensando che lei fosse araba. “Alla fine, un giorno gli dissi che non capivo cosa mi diceva. Mi rispose che ‘dai miei occhi’ avrebbe scommesso che ero ‘una di loro’ ”.
Confusa da quel commento, Melilli fu spinta ad esplorare la storia della sua famiglia per trovare qualche risposta. Presto la ricerca la portò a pensare alle più profonde questioni del ruolo dell’Italia in Africa come potenza coloniale. “Ho visto come il passato coloniale della mia famiglia stava attraversando anch’esso un periodo buio nella storia italiana, è un’epoca di cui non si parla mai nella sfera pubblica”.
Per Melilli, tutto cominciò con Tripolitalians (2010), un progetto multimediale da lei elaborato partendo da un archivio di racconti e documenti dell’ex comunità italiana in Libia, vissuta a Tripoli dagli anni ‘30 agli anni ‘60. Al progetto seguirono due cortometraggi, e infine il documentario My Home, in Libya.
Meravigliosa Libia
Secondo i ricordi dei nonni della regista, Tripoli era una città meravigliosa e internazionale, in cui gli arabi e gli italiani vivevano insieme in armonia. Il processo di colonizzazione italiana della Libia iniziò nel 1911-1913, e continuò poi con una brutale campagna contro le forze di resistenza locale negli anni ‘20 e primi anni ‘30. In queste guerre vediamo i primi campi di concentramento, i bombardamenti aerei e l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile nell’Africa del nord.
Quando nacquero i suoi nonni, quella guerra era finita. “Mio nonno nacque lì nel 1936, quando tutto era istituzionalizzato, quindi i miei nonni non avevano visto tutto quello che era successo” spiega Melilli. “Quando sono nati loro non se ne parlava, e dal punto di vista italiano c’era una coesistenza pacifica.”
“Non solo gli italiani, ma qualsiasi potenza coloniale era lì per trarre profitto dalle risorse di petrolio della Libia. Certo, le dinamiche del potere erano chiare, anche in termini di ruoli e mansioni che italiani e libici ricoprivano in quel tipo di società”.
Il tema centrale del film è il racconto dell’esperienza coloniale italiana in Libia, così com’è stata raccontata dai nonni della regista. Loro se ne andarono subito dopo che Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969, quando migliaia di italiani vennero espulsi dal regime rivoluzionario del colonnello libico.
“Lasciammo (a Tripoli) il nostro cuore, i nostri amici e ogni cosa” racconta la nonna di Martina nel film. “Eravamo gli unici italiani nella nostra via. Nel nostro condominio c’erano un egiziano, un arabo che abitava al piano di sopra, dei libici di fianco a noi. Erano tutte persone adorabili. E, quando ci fu la rivoluzione, ci portavano da mangiare”.
Nonostante esistano storici di entrambi i Paesi che hanno studiato quel periodo, come Angelo Del Boca e Anwar Fekini (nipote del combattente della resistenza Mohamed Fekini), si tratta di un’epoca che dev’essere ancora approfondita e assimilata sia dagli italiani che dai libici.
‘Prodi cavalieri’
Questa lacuna nella comprensione storica è stata oggetto di una ricerca del giornalista e regista libico Khalifa Abo Khraisse. Suo nonno fu uno dei combattenti che resistettero all’occupazione italiana, premiato con una medaglia al valore come combattente per la libertà all’epoca di Gheddafi.
Al Lybian National Center for Archives and Historical Studies, un centro creato nel 1977 con il nome di Lybian Jihad Research and Studies Center, Abo Khraisse ha trovato i materiali per analizzare quell’epoca. Uno dei motivi della mancanza di una solida storiografia locale, spiega Abo Khraisse, è che la maggior parte della storia libica veniva tramandata oralmente.
“Mio padre diceva che non esiste praticamente alcuna storia senza poesie, e le storie senza poesia sono spesso meno attendibili” racconta. “I libici erano prodi cavalieri e, per un cavaliere, la cosa più importante, nonché principale fonte d’orgoglio, sono i cavalli e la poesia”.
Storia perduta
Un’altro motivo si trova nel sistema scolastico. Abo Khraisse spiega che oggi in Libia, alle giovani generazioni, viene raccontata solo una storia parziale, a causa di quella che lui definisce “compressione storica” del governo Gheddafi, che si focalizza sulla lotta contro il colonialismo occidentale.
“La discussione di fatti contrastanti non era possibile, anzi, era addirittura vietata. Questo ha creato un vuoto di conoscenza tra le generazioni, e quando crei un vuoto, crei anche la necessità di riempirlo.”
Nella sua analisi, questo è uno dei fattori che hanno contribuito all’ascesa dei movimenti populisti e dell’estremismo, e di gruppi che si autoproclamano difensori della verità storica. “Oggi, il dibattito è dominato da coloro che non sono interessati a comprendere la complessità della storia”.
Abo Khraisse è preoccupato dal fatto che i testimoni diretti della storia libica di prima del 1945 stanno morendo e, senza di loro, ciò che è successo a quel tempo verrà dimenticato: “Senza le voci che possano raccontare quell’epoca secondo la propria esperienza personale, l’unica fonte che ci resta è la storia per come ce l’ha raccontata il vecchio regime”.
Abo Khraisse è convinto che, contro un’immagine della Libia come luogo di sola violenza e guerra, dovremmo cercare una narrativa differente, “una testimonianza diretta, per creare consapevolezza che gli altri vivono in società come le nostre, per riconoscerli come gli esseri umani che sono”.
Tra i suoi lavori, Abo Khraisse ha partecipato alla scrittura di uno spettacolo teatrale, Libia. Back Home, progetto nato dalla personale ricerca dell’attrice italiana Miriam Selima Fieno sulle proprie origini libiche, e trasformata in spettacolo teatrale dalla compagnia italiana La Ballata dei Lenna. Miriam ha iniziato a collaborare con Abo Khraisse dopo aver letto i suoi articoli.
Presentato di recente al Romeuropa Festival a Roma, questo spettacolo multimediale intende collegare la Libia del passato a quella del presente, giostrandosi tra i ricordi più intimi e gli incontri con tre personaggi che vivono a Tripoli: Salem, cugino libico di Miriam, Haidar, professore iracheno d’inglese, e lo stesso Abo Khraisse.
La ricerca di Selima Fieno assomigliava a quella di Melilli. Infatti, anche lei ha ricreato una mappa per ricollocare tutti i luoghi descritti da suo nonno, che era stato mandato in Libia durante l’era Mussolini e aveva sposato una donna libica.
Ad Abo Khraisse è piaciuta l’idea e ha iniziato ad aiutare la compagnia teatrale a scoprire di più. Ha sostituito i vecchi nomi delle strade con i loro nomi moderni, e insieme hanno creato una mappa. Hanno condiviso le loro riflessioni, si sono scambiati informazioni, video, foto e documenti.
Il fruttuoso canale di comunicazione che sono riusciti a stabilire ha permesso loro di confrontare la situazione attuale della Libia con il suo passato, e di mettere in luce il legame tra Libia e Italia.
La storia di chi?
Mentre la ricerca di Abo Khraisse come regista e autore integra la storia locale libica e le cronache moderne con i ricordi personali, il documentario di Melilli è quasi esclusivamente personale. Perciò, alcuni lo hanno criticato perché non affronta le domande difficili della storia.
Melilli dice di essere partita da una posizione di condanna del colonialismo e dei suoi crimini, ma di aver poi scoperto, parlando con il suo corrispondente libico, che la percezione della storia era diversa.
“Parlando con i miei nonni e con Mahmoud, ho messo in discussione i miei valori. Ho parlato con persone che hanno vissuto una specifica esperienza temporale, che sicuramente non è onnicomprensiva, né è l’unica. Ma è la sola che hanno loro”.
All’inizio del film, parla con Mahmoud del male che gli italiani hanno fatto in Libia: “Ma dal momento che la versione di Mahmoud è diversa dalla mia, che diritto ho io di spingere in una direzione che io stessa ho scelto? Non sarebbe corretto dal punto di vista professionale. Non posso imporre la mia idea originaria solo perché quell’idea è più eticamente adeguata rispetto ai fatti che volevo raccontare”.
Crimini coloniali
Un altro artista italiano che affronta il tema del colonialismo italiano in Libia è il quarantatreenne fiorentino Leone Contini, questa volta attraverso vicende personali, nella sua installazione artistico-antropologica Bel Suol d’Amore – The Scattered Colonial Body (2017).
L’approccio di Contini è diverso da quello di Melilli, perché lui insiste sull’agire dell’artista, che dovrebbe farsi carico delle responsabilità coloniali. Crede che il professionista della cultura dovrebbe “decostruire dall’interno” la dinamica che ha portato il razzismo e il colonialismo in Libia.
Bel Suol D’Amore è incentrata soprattutto sulle collezioni museali e gli archivi romani, e sulle memorie della nonna dell’artista, nata a Tripoli.
”I miei bisnonni arrivarono in Libia nel 1931, nel periodo violentissimo dell’insurrezione in Cirenaica” spiega Contini. “Gli anni ‘30 costituirono l’apice della violenza fascista, e furono seguiti dalla guerra e dal pogrom, che anche mio nonno ha vissuto.”
Nel 1930, gli italiani rinchiusero 100.000 uomini, donne e bambini della Cirenaica in campi di concentramento. Si stima che, nei tre anni successivi, morirono 60-70mila prigionieri, oltre la metà della popolazione. Dopo la guerra, un pogrom prese di mira la comunità ebraica di Tripoli, uccidendo oltre 140 ebrei.
È inevitabile che i racconti di sua nonna, nata nel 1914, siano molto diversi da quelli della nonna di Melilli, nata vent’anni dopo. “[Le sue] storie erano piene di violenza, perpetrata dai fascisti, e riguardavano il contesto generale della Libia.”
La nonna di Contini fu testimone degli eventi che seguirono la cosiddetta “pacificazione” della Tripolitania, nel 1931-1932, per opera dell’alto ufficiale militare di Mussolini in Libia, Rodolfo Graziani, anche noto come “il Macellaio del Fezzan” per il suo operato in Cirenaica.
Sua nonna odiava Graziani, racconta. “Era una donna che proveniva da una famiglia socialista, aveva una sensibilità diversa rispetto a quella di molti altri italiani con cui ho parlato durante la mia ricerca,” dice Contini. “Forse loro non hanno visto o memorizzato molte cose, dettagli come gli arabi decapitati e trasportati come un trofeo su una jeep dal macellaio di Graziani, Piscopello”.
L’obiettivo principale della ricerca di Contini era di far luce su questo periodo buio della storia italiana. “Molti credono che il colonialismo sia una mera conseguenza del fascismo,” dice Contini. “Ma non è così, perché sappiamo che il colonialismo italiano cominciò prima del fascismo e in qualche modo gli è sopravvissuto.”
Contini pensa che la parte più sconvolgente della storia di sua nonna sia proprio questo retaggio coloniale, profondamente radicato nella forma mentis europea.
“Nel dopoguerra, gli italiani non erano più i padroni della Libia, ma vi mantennero una sorta di apartheid”, spiega. “C’è un buco nella storiografia tra il 1942 e il 1967, perché la gran parte degli storici italiani interrompe le ricerche sulla Libia da quando l’Italia non vi ha più le colonie”.
Secondo la nonna di Contini, alla fine di questo interregno, quando Gheddafi salì al potere, gli italiani non potevano immaginare che stavano per essere buttati fuori dal Paese. “Non era poi così difficile prevederlo, ma, quando alla fine successe davvero, tutti erano sconvolti. Li sentivi dire: ‘Com’è potuto accadere? Eravamo così gentili con gli arabi.’ ”
Materiali oscuri
Cercando negli archivi museali, Contini si ritrovò a maneggiare del materiale davvero sconvolgente, per esempio maschere facciali di persone libiche create da un antropologo fascista. Doveva capire se esisteva un modo sensibile di esporle.
Senza un percorso tracciato da altri esponenti della cultura relativamente a questo periodo storico, aveva paura di perpetuare un approccio colonialista, orientalista e definitivamente razzista. Il che era qualcosa che voleva assolutamente evitare.
“Ribadisco sempre che il mio lavoro è nell’ambito delle ‘ricerche italiane’”, spiega Contini. “Non mi sento titolato per parlare di colonialismo; non volevo essere un bianco che parlava degli ‘altri’. La sola cosa che potevo fare era svelare il male che abbiamo fatto, e come questo sia ancora parte di noi. Non mi sento in diritto di maneggiare determinati materiali che si trovano nel museo, lo può fare solo un artista libico”.
Nell’accostare una foto di sua nonna a un busto di Graziani (“Mi avrebbe ucciso per questo!”), Contini ha creato un cortocircuito semantico ed emozionale. Affiancando una dimensione privata ad atrocità pubbliche, ha messo a disposizione di chi guarda due narrative parallele, permettendo a ciascuno di giudicare da sé.
“Con la mia ricerca cercavo una catarsi, ma mi sono imbattuto in ancor più domande senza risposta”, dice Contini. “Mi dispiace per la cultura italiana in generale, ma c’è ancora molto da scavare prima di arrivare al punto di poter lasciar perdere tutto questo”.