L’indagine del portale Middle East Eye sul social che più di altri è stato considerato un sostegno alla rivoluzione di piazza Tahrir. Oggi gli attivisti lo denunciano: cancella i nostri profili
di Dania Akkad – Middle East Eye
(Traduzione di Elena Bellini)
Roma, 13 febbraio 2018, Nena News – (qui la prima parte) Sawsan Gharib, Bahgat Sabr e Ahmed Abdel-Basit Mohamed non sono gli unici egiziani a risentire di questa situazione. Tra gli attivisti intervistati da MME, ci sono:
Ahmed Mawlana
Ex membro dell’ala politica di Gabaht Salafya e ingegnere, ha 40mila followers. Nell’ottobre del 2016, ha criticato una lezione sulla cultura islamica tenuta da Abu Ali al-Anbari, un “cervello” dello Stato Islamico ucciso in Siria. Secondo Mawlana, il suo post è diventato virale e quindi è stato rapidamente preso di mira dai troll pro Isis.
Nel giro di tre ore, la sua pagina Facebook è stata chiusa. Facebook ha chiesto a Mawlana di inviare il suo documento di identità per verificare il suo profilo, ma poi non ha più risposto né riattivato il profilo. Mawlana ha aperto un secondo profilo con un nuovo indirizzo e-mail, anche questo pesantemente segnalato il giorno stesso e bannato. Facebook ha verificato questo profilo, Mawlana è riuscito a riaprirlo e da allora continua a pubblicare. “Il dipartimento di lingua araba di Facebook è debole. Non sono capaci di dire cosa vada bene e cosa no; qualsiasi segnalazione ricevano, cercano andare sul sicuro e chiudono”.
Abdrahman Ezz
Ezz, uno dei fondatori del movimento 6 Aprile, ha lavorato come giornalista e presentatore tv in Egitto e ha più di 130mila followers su Facebook; è stato bloccato più volte per post critici contro al-Sisi, gli Emirati e Israele. “Penso che il social network sia diventato uno strumento di disturbo contro gli attivisti che lo utilizzano, specialmente adesso che non c’è nessun altro media accessibile in Egitto – dice – Tutti i media appartengono al regime. Non ce n’è uno che sia libero. Non c’è alcuna libertà di espressione”.
Akrm Boktor
Egiziano residente a New York City, non è affiliato a nessun partito politico ma, dice, “semplicemente si oppone all’attuale governo”. All’inizio di ottobre, Bokrot ha annunciato sulla sua pagina Facebook, che ha oltre 12mila followers, di voler fare una diretta sull’argomento degli agenti dell’intelligence egiziana che si fingono membri dell’opposizione. Quando però si è collegato per utilizzare Facebook Live, ha scoperto che il suo profilo era stato disattivato.
Inondare, attaccare e hackerare gli attivisti online
Il potere del social network può aver infastidito Mubarak, che ha bloccato internet pochi giorni prima di cedere il potere nel 2011.
Tuttavia, secondo Yannis Theocharis, ricercatore al Mannheim Centre for European Social Research, altri leader hanno osservato e imparato, e così le Primavere arabe hanno spinto i dittatori ad adottare misure repressive più decise. “La grande esplosione c’è stata con la Primavera Araba dalla Tunisia all’Egitto – ha detto Theocharis a MEE – Non che la repressione prima non esistesse, ma non aveva mai raggiunto questa portata”.
Oggi, dice, non si può pensare di tagliare completamente internet, visto l’alto livello di interconnessione con l’economia globale, il che costringe i censori a escogitare altri sistemi.
La Cina, pioniera nella censura dei social media, ha utilizzato due sistemi ottenendo risultati significativi. Per prima cosa il governo ha assunto agenti per monitorare i social media e scovare gli utenti che cercano di diffondere contenuti a potenziale rivoluzionario. Quindi hanno trovato il modo di togliere loro la possibilità di postare.
Il secondo sistema è chiamato “flooding” (inondazione) e prevede che il governo inondi internet di informazioni irrilevanti, come per esempio quanto sia bello il tempo, per distrarre gli utenti. Secondo Theocharis, “lasciano che il dibattito si sviluppi fino a un certo punto. Solo se c’è il rischio di mobilitazione delle persone, allora cercano di soffocarlo”.
Nel 2014, il governo egiziano ha cominciato ad arrestare i cittadini in base a ciò che postavano sul social media. Un dipendente di una ong ha raccontato a BuzzFeed che la sua organizzazione è stata coinvolta in diversi casi di utenti portati via da casa dalla polizia “senza prove di quanto era stato pubblicato in rete o senza che questo costituisse reato”.
Anche al-Sisi è stato ipercritico contro i social media. Nell’aprile del 2016 ha attaccato gli utenti e i media che avevano accusato le forze di sicurezza egiziane di aver torturato e ucciso Giulio Regeni, il ricercatore italiano ritrovato morto sul ciglio di una strada nel febbraio del 2016. Le loro “chiacchiere incontrollate”, secondo al-Sisi, stavano “per Dio, danneggiando il Paese”. Quello stesso mese, il governo egiziano ha bloccato i servizi Facebook Free Basics dopo che la società aveva rifiutato di dare al governo la possibilità di spiare gli utenti.
Oltre agli arresti, alla retorica e agli accessi bloccati, un altro sistema che è stato usato è la chiusura delle pagine Facebook, spiega Ramy Raoof, ricercatore di tecnologia all’Egiptian Initiative for Personal Rights e research fellow al Citizen Lab. “Colpire le pagine Facebook non richiede alcuna tecnologia o strumentazione sofisticata – dice – È molto semplice da fare.”
Ci sono tre modi per farlo: inviare a Facebook una richiesta legale; inviare una quantità enorme di segnalazioni negative della pagina; hackerarla. In Egitto, sono le ultime due tecniche che hanno prosperato dal 2014, in particolare dopo che il governo ha esternalizzato attacchi e hackeraggi.
“Si tratta, più o meno, di persone che forniscono i loro servizi ad agenzie di Stato per fare cose su cui lo Stato non vuole lasciare impronte”, dice. Alla fine, non importa quanto possa sembrare sofisticato un attacco, c’è sempre un essere umano, dietro. Ma scoprire chi è quell’essere umano può essere estremamente difficile, se non impossibile, e questo è uno dei punti interessanti di questa strategia.
“Se qualcuno pensa di essere sotto attacco da parte dell’Isis o del fattorino di Pizza Hut, wow!, si potrebbe avere ragione di crederci – dice – Ma, in fin dei conti, è un’opinione. Non possiamo provarlo”.
Il governo egiziano non si è fatto troppi scrupoli a chiudere pagine: nel dicembre del 2016, come riportato dal sito egiziano di notizie Youm7, il generale di brigata Ali Abaza, direttore del Dipartimento del Ministero degli Interni per la lotta alla Criminalità Informatica, ha detto che la sua divisione, nel 2016, ha chiuso 1.045 pagine Facebook che “incitavano alla violenza e all’omicidio di soldati e poliziotti”.
“Si sentono molto forti (nel farlo) – dice Raoof riferendosi ai comunicati del Ministero degli Interni degli ultimi due anni – (Dicono) ‘Chiudiamo una pagina (della Fratellanza Musulmana) o una pagina anarchica o qualcuno che dice ‘Fanculo’. Sono molto infantili, si sentono come in Star Wars”.
Secondo il rapporto di Facebook sulla trasparenza, tra gennaio e giugno dello scorso anno il governo egiziano ha presentato una richiesta urgente di dati relativamente a due profili. La società riferisce di aver fornito i dati nel 50% di tali richieste.
Sottolinea inoltre che il governo ha chiesto alla società di “conservare” i dati relativi a 20 profili, cosa per la quale la società “si impegnerà” ad agire “in concomitanza con le indagini giudiziarie per 90 giorni in attesa di ricevere i procedimenti legali ufficiali.”
‘Facebook è il gigante’
Ci sono, ovviamente, altre piattaforme e mezzi di comunicazione oltre a Facebook. Ma secondo Ellery Biddle, capo di Global Voices’ Advox, network di blogger e attivisti che difendono la libertà di espressione, non sono proprio la stessa cosa. E, soprattutto, spesso non sono sicuri.
“Non è che non ci siano altri spazi in cui si possa fare, ma Facebook è il gigante – dice Biddle – Ci fornisce gli strumenti che ci permettono di costruire relazioni e creare fiducia, trovare persone che la pensano come noi, persone con cui abbiamo qualcosa in comune e discutere delle cose in un modo che, nella vita reale, sarebbero rischioso o addirittura impossibile.”
La Biddle ha lavorato, di recente, con attiviste femministe in India: hanno lottato per evitare che le loro pagine Facebook venissero chiuse dopo essere state segnalate da “troll folli che volevano davvero chiuderci la bocca”. “Facebook è davvero il loro luogo d’incontro, è lì che fanno il loro lavoro. Tutto comincia su Facebook. Non finisce lì, ma per molte donne che fanno parte del network non è facile fare attivismo IRL (“In Real Life”, nella vita reale)”.
E la chiusura delle pagine in rete diventa un problema nella vita reale, dice Theocharis. Casi studio in Cina e Iran hanno dimostrato che la chiusura di pagine online è diventato un serio ostacolo per gli attivisti offline. “Rende davvero molto difficile per la gente continuare perché, se continui, potrebbero non limitarsi a bannarti il profilo.”
Se la pagina “We are all Khaled Said” fosse stata lanciata oggi invece che nel 2010, sarebbe riuscita a rimanere su Facebook così a lungo? Nessuno degli attivisti egiziani che hanno parlato con MEE ha ricevuto niente più di una risposta automatica da Facebook quando ha provato a capire perché i post violassero i termini e le condizioni.
“Non c’è modo di contattare Facebook – dice Gharib – Questo è il problema. Le ho provate tutte. Ti ignorano. Ogni giorno, presento reclami. Ogni giorno. Loro ti mandano un link agli standard di comunità o un link per mettere il sorrisino o la faccina triste, ma nessuno legge (i miei messaggi)”.
Dopo 10 minuti dall’invio di una mail all’ufficio stampa Facebook, MEE ha ricevuto una risposta da un collaboratore di Teneo Blue Rubicon, branca londinese della società di consulenza Teneo, che annovera tra i suoi clienti Coca-Cola e McDonald’s. In una successiva conversazione, ci ha detto che, se avessimo inviato i link ai profili di tutti gli attivisti bannati, Facebook avrebbe controllato cos’era successo e lui ci avrebbe poi potuto dare una risposta.
“E l’articolo sarà, forse è difficile saperlo in questo momento, ma sarà critico verso Facebook? – ci ha chiesto – O state solo cercando di sapere essenzialmente cosa sia successo?”. MEE ha inviato una lista degli attivisti e di domande a Facebook il 18 gennaio, ma, fino al momento della pubblicazione, non abbiamo ricevuto risposta.
Quindi perché Facebook sta chiudendo queste pagine? La decisione viene presa dal famoso algoritmo di Facebook o da una persona in carne e ossa? E cosa si può fare? I sostenitori della libertà digitale, come gli attivisti egiziani, dicono che sono anni che lottano per avere queste risposte.
Lo scorso maggio, Mark Zuckerberg ha rivelato per la prima volta che la società ha 4.500 moderatori di contenuti nel mondo e prevedeva di assumerne altri 3mila. Ma Facebook ha, secondo le stime, due miliardi di utenti, quindi assumere 3mila persone in più vuol dire avere un moderatore per ogni 266.666 utenti, ognuno dei quali può postare diverse volte al giorno, o all’ora.
Non sorprende che gli osservatori abbiano messo in dubbio che ci sia un numero sufficiente di moderatori, soprattutto di quelli con un’adeguata conoscenza delle lingue diverse dall’inglese, che possano controllare in modo appropriato la piattaforma in ogni sua sfumatura e sottigliezza.
“Sapete quant’è difficile, per persone che hanno grande esperienza e profonda conoscenza, decidere se una singola immagine o affermazione costituisca incitamento all’odio? – dice Biddle – È davvero inquietante pensare che tutto questo processo decisionale avvenga in un batter d’occhio”.
Ci sono abbastanza moderatori in carne ed ossa che possano capire, interpretare e giudicare i post in arabo egiziano? “Non credo che abbiano davvero immaginato cosa sarebbe successo quando all’improvviso la gente ha iniziato a postare in così tante lingue – dice Biddle – Non so quante lingue ci siano su Facebook, ma sicuramente sono centinaia, se non migliaia.”
Theocharis dice che le società di social media hanno chiaramente sottofinanziato la moderazione dei contenuti, anche se, negli ultimi sei mesi, hanno cercato di assumere più persone. Il punto è, dice, che c’è bisogno di una moderazione ricca di sfumature. “Non è poi così male che la società abbia avuto l’impressione di buttar via i soldi – dice Biddle – Non c‘è molto denaro da fare con l’attivismo. Non si guadagna con la pubblicità… Invece, ci sono contenuti sponsorizzati dai media statali o dalla propaganda.”
In dicembre, MEE ha notato, su un sito di assunzioni irlandese, alcuni annunci di lavoro per “analisti politici” con conoscenza della lingua araba per la sede Facebook di Dublino, con stipendio di poco meno di 35.000 sterline all’anno. Tra i compiti previsti, secondo l’annuncio, l’analisi e risoluzione di problemi tra cui le “segnalazioni di contenuti potenzialmente abusivi”.
Ma queste nuove assunzioni risolveranno il problema? Secondo Theocharis, anche con nuovi investimenti le società di social media non possono competere con gli ostinati regimi dittatoriali. Il miglior consiglio che darebbe agli attivisti è di organizzarsi usando canali alternativi, non controllabili dai governi.
Queste, però, sono parole deprimenti per attivisti come Sawsan Gharib, Bahgat Sabr e Ahmed Abdel-Basit Mohamed, il cui unico scopo è dar voce alle opinioni che non trovano ascolto altrove e creare online quella fiducia che non è più possibile trovare nel mondo reale.
Invece oggi condividono le storie dei loro bannaggi sui social, proprio come una volta condividevano i loro progetti di protesta.