Sin dalla sua fondazione, il regno saudita ha potuto contare sulla stabilità garantita dall’alleanza con gli Stati Uniti e sulla lealtà incondizionata dei suoi sudditi diretta dall’oscurantismo religioso. Ma le cosiddette primavere arabe e la ritrovata posizione dell’Iran nello scacchiere regionale rischiano di minarne il lungo primato
Uno dei maggiori attori nel contesto mediorientale è sicuramente l’Arabia Saudita. Un enorme territorio che ospita, nella regione costiera dell’Hijaz, le città sante dell’Islam di La Mecca e Medina, luoghi di nascita e morte del Profeta Maometto. Oltre alla valenza religiosa, l’Arabia Saudita è la culla dell’Islam politico di fede sunnita (l’85 per cento della popolazione, il resto è sciita); il paese, inoltre, esercita un’enorme influenza grazie al suo potere economico derivante dai ricchi giacimenti di petrolio, i maggiori al mondo.
L’entità statuale saudita nella penisola arabica si è andata formando a partire dalla metà del 1700, complice l’alleanza tra il clan degli al-Saud e la setta wahhabita, fondata da Muhammad ibn Abd el-Wahhab con l’intento di purificare l’Islam da ogni eresia e riportarlo alla sua forma originaria. Dopo un secolo e mezzo di scontri con i clan rivali, con l’impero ottomano e con l’Egitto per il controllo dei luoghi sacri dell’Islam, l’emiro Abd al-Aziz al-Saud riconquistò nel 1902 l’attuale capitale Riyadh, allora in mano al clan dei Rashidi. Nel 1926 strappò definitivamente l’Hijaz agli Hashemiti, guardiani dei luoghi sacri dell’Islam durante e dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano. L’opera di costruzione dell’Arabia Saudita terminò sostanzialmente nel 1933 con la vittoria sullo Yemen che comportò l’annessione dell’Asir; i veri e propri confini verranno definiti con vari Trattati con i paesi confinanti solo alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel 1932 venne proclamata la costituzione del regno dell’Arabia Saudita. La politica di re Abd al-Aziz si limitò ad applicare una parziale trasformazione e integrazione del territorio. In materia di politica economica il re inaugurò lo sfruttamento delle risorse petrolifere, scoperte nel 1938, che diventarono la fonte principale di sostentamento del paese. Il suo regno terminò con la sua morte nel 1953, ma soltanto nel 1964, dopo un periodo di crisi politica dovuto alle lotte intestine tra i figli che puntavano alla successione al trono, si ebbe un nuovo monarca: salì al trono re Faysal.
Il governo di re Faysal durò fino al 1975 e fu caratterizzato dalla volontà del regnante di far affermare l’Arabia Saudita in tutto il mondo e di enfatizzare il carattere confessionale dello stato. Le ingenti quantità di denaro che provenivano dal commercio del petrolio garantirono un notevole benessere – anche se la maggior parte della popolazione rimase nomade fino agli anni ’60 – con un aumento del livello di istruzione, grandi opere architettoniche ma nessun segno di democratizzazione. La sua monarchia, poi, dovette far fronte alle crisi generate dalle guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973. In entrambi i casi venne messa in discussione la forte alleanza con gli Stati Uniti – subentrati nel ’45 alla Gran Bretagna come primi partner commerciali degli al-Saud – e nel 1973 Riyadh sospese, assieme ad altri paesi del Golfo, le forniture di petrolio agli stati che sostenevano Israele.
Nel 1975 re Faysal venne assassinato e come suo successore venne nominato re Khaled, che regnò fino al 1982. Durante il suo mandato, l’Arabia Saudita conobbe un periodo di prosperità economica e di relativo sviluppo in particolare per quanto riguarda le sue infrastrutture. Nel 1979, anno della Rivoluzione islamica in Iran, furono molti i musulmani che raccolsero l’invito dell’Ayatollah Khomeini di ribellione contro la monarchia alleata degli occidentali, soprattutto nelle zone dove vivevano gli sciiti: fu l’inizio della guerra fredda tra i due paesi. Nel frattempo l’islamismo più radicale trovò modo e maniera di organizzarsi e di accusare la corruzione che caratterizzava il regno di Khaled, portando all’occupazione della sacra moschea della Mecca.
L’ostilità dell’ala sunnita più tradizionalista alla monarchia saudita crebbe anche durante il governo di re Fahd, durato fino al 2005. Uno dei fattori scatenanti fu sicuramente lo stretto legame tra la dinastia e gli Stati Uniti, e il conseguente processo di modernizzazione che venne visto dagli islamici più radicali come una manifestazione di contaminazione occidentale. Da parte sua l’Iran, che in quegli anni combatteva la sua guerra contro l’Iraq (di cui Riyadh era uno dei principali sostenitori), si scontrò spesso con i sauditi in sede OPEC per l’abbassamento del prezzo del petrolio deciso da Riyadh su pressioni statunitensi. Violenti scontri di piazza si susseguirono fino a quando nel 1987 gli iraniani che si trovavano alla Mecca e che protestavano contro l’alleanza saudita-statunitense vennero brutalmente repressi dalla polizia. Le tensioni che crebbero nel paese non minarono lo stretto legame con gli Stati Uniti tanto che consentirono a Washington la costruzione e il mantenimento delle basi militari a seguito della Guerra del Golfo, scoppiata nel 1990 con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
È proprio in questo contesto che nasce e cresce la figura di Osama Bin Laden, miliardario ereditiere di un facoltoso clan saudita e vecchio amico degli Stati Uniti che se ne servirono durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan: già nel 1991 egli dichiarò apertamente guerra alla famiglia dei Saud, colpevoli di essere asserviti al potere occidentale e di guidare uno stato giudicato troppo laico, venendo subito espulso dal regno. Il movimento da lui fondato, al-Qaeda, iniziò a compiere attentati terroristici in Arabia Saudita nel 1995 ed ebbe la possibilità di espandersi in molte altre regioni a maggioranza musulmana proprio grazie alle ingenti quantità di capitali che Osama Bin Laden possedeva. Il culmine delle azioni terroristiche si raggiunse nel 2001 con l’attacco alle torri gemelle di New York e che comportò anche un allentamento della storica alleanza tra i due stati.
Dal 2005 fino al 2015, anno della sua morte, l’Arabia Saudita è stata guidata da Abdallah, fratellastro di Fahd. Salendo al trono in età già avanzata, non ha fatto altro che mantenere una sorta di equilibrio politico e inaugurato una retorica di democratizzazione fino ad allora sconosciuta, concedendo alcuni diritti anche alle donne. Ovviamente, ha lavorato per mantenere intatte le relazioni con gli Stati Uniti e con l’Occidente.
La relativa tranquillità di cui godeva la dinastia al-Saud è stata sconquassata dallo scoppio delle cosiddette primavere arabe nel 2011, che hanno portato a proteste, oltre che negli stati confinanti, anche nel paese. In particolare, a sollevarsi è stata la minoranza sciita, da sempre marginalizzata e privata dei diritti di cui godono i concittadini sunniti. La repressione delle proteste sciite ha oltrepassato le frontiere del regno quando i carri armati sauditi sono intervenuti nel vicino Bahrain per sedare la rivolta contro la minoranza sunnita detentrice del potere. A monte sta la rivalità con l’Iran, nemico religioso ma soprattutto politico ed economico, sostenitore delle comunità sciite sparse nel Golfo e spesso maggioritarie nelle aree ad alta concentrazioni di giacimenti petroliferi.
La rivalità tra le due potenze mediorientali si è trasformata in vera e propria guerra fredda con lo scoppio della guerra civile siriana e ha raggiunto il proprio apice nel marzo del 2015 con l’invasione saudita dello Yemen per distruggere la rivolta degli sciiti Houthi e riprendere il controllo del proprio vicino meridionale. A complicare le cose ci si è messo l’accordo sul nucleare iraniano, siglato da Teheran con le potenze occidentali nel luglio del 2015: l’intesa ha infatti tolto l’Iran dall’isolamento internazionale nel quale viveva dal 1979, riproponendolo come interlocutore di primo piano per i conflitti della regione. Una situazione che rischia di togliere il primato a Riyadh. Nena News
(A cura di Andrea Leoni e Giorgia Grifoni)