I Saharawi attendono ancora, dopo un trent’anni, il referendum sull’indipendenza del Sahara Occidentale. Negli ultimi mesi hanno ripreso la sollevazione contro l’occupazione militare marocchina. L’impegno contro la tortura di Mohamed Dihani, voce tra le più autorevoli del suo popolo
di Alessandra Mincone
Roma, 12 novembre 2020, Nena News – Terreno di scontro tra i Sahwari e il Marocco è El Guerguerat, territorio di massimo pericolo, da quando negli anni Ottanta fu eretto un muro che si estende per oltre 2700 chilometri di deserto minato, per dividere le aree controllate dal Fronte Polisario e quelle occupate dall’esercito marocchino.
Nonostante il divieto di accesso, sancito anche dalle Nazioni Unite, pare che Guerguerat rappresenti il corridoio di traffico da cui il Marocco trasporta le ricche risorse della regione: fosfato, uranio, petrolio, oro.
A questo episodio, si aggiunge l’ultima decisione del MINURSO (Onu) del 31 ottobre di rimandare il referendum sull’indipendenza al 2021, provocando nel Fronte Polisario e nel popolo saharawi, un nuovo moto di ribellione che potrebbe non escludere un ritorno alla lotta armata: “le forze di occupazione marocchine hanno iniziato a mascherare questi gruppi delle forze marocchine cambiando l’abito militare in quello civile davanti agli occhi degli osservatori MINURSO, con l’obiettivo di introdurli nella zona del Guerguerat, al fine di attaccare i civili saharawi in sit-in da più di due settimane” – è quello che si legge in una nota del governo saharawi.
Tra gli attivisti pacifici per la libertà e l’autodeterminazione del territorio conteso, vi è Mohamed Dihani, a denunciare a mezzo stampa la totale incapacità delle Nazioni Unite di attuare il processo di pace, oltre che a far luce sulla pesante accusa contro il governo marocchino di gravi violazioni dei diritti umani.
Dihani, nato sotto la giurisdizione marocchina ad Al Auin nel 1986, ha impegnato tutta la sua vita nella causa del popolo saharawi sin da bambino. Fu arrestato per la prima volta nel ’96, ma subirà un primo processo nel 2010, dopo l’arresto senza alcun mandato da parte di agenti in borghese della Direzione generale per la sicurezza e sorveglianza nazionale del Marocco. È stato vittima di scomparsa involontaria e di torture nel carcere segreto di Temara, fino a quando le guardie carcerarie non gli hanno estorto la confessione per “crimini di cospirazione e terrorismo”. Nonostante l’art. 15 della Convenzione contro la Tortura recita che “qualsiasi dichiarazione, accertata che sia stata commessa a seguito di tortura, non può essere invocata come prova”, nell’ottobre 2011 il Tribunale penale di Rabat condannava l’attivista a scontare dieci anni di prigione. “In sette mesi di detenzione illegittima non ho mai ricevuto supporto legale” dichiara – “ed ho visto, con i miei occhi, le guardie carcerarie torturare e violentare due donne arrestate”.
Dopo 5 anni di pena scontata in varie prigioni, oggi Dihani è uno dei rappresentanti della voce del Sahara, anche se non vi fa rientro dal 2008. Ha fondato il canale di comunicazione on line “Wesatimes” e collabora con numerose organizzazioni umanitarie per il diritto al ritorno e all’autodeterminazione del suo popolo originario. Il Governo marocchino, incurante persino delle pressioni di associazioni umanitarie come Amnesty International, non ha mai aperto alcun processo contro il personale penitenziario, negando le accuse di detenzione arbitraria e di negazione al supporto legale. A nulla sono servite le sue denunce al Procuratore generale del Sahara, dove alti funzionari marocchini vengono accusati di tortura; al contrario, i servizi di polizia e spionaggio del Marocco hanno chiesto nel 2020 al Ministero degli esteri in Tunisia di catturare l’attivista una seconda volta. La sola azione da parte della Tunisia, per non compromettere i rapporti politici con il Marocco, è stata la richiesta da parte del Ministero degli Interni a non ledere l’immagine del Marocco sui canali web di Mohamed.
Ma d’altro canto la pena del bavaglio da parte delle autorità al servizio del re, Mohammed VI, non sono delle esclusive riservate ai soli ribelli saharawi.
Dal 2019, nella lista dei condannati per oltraggio al re si leggono i nomi di Rachid Sidi Baba, attivista condannato a due mesi e mezzo di carcere per aver espresso la sua contrarietà allo sfruttamento di terreni per mano di investitori stranieri; Hamza Sabbaar, cantante condannato a otto mesi di carcere per aver denunciato, in alcuni testi, le condizioni di regressione economica del paese; Omar Radi, giornalista investigativo, arrestato una prima volta nel 2019 per aver documentato le storie del movimento di protesta “Hirak” nella regione El-Rif e per aver espresso solidarietà agli attivisti incriminati; viene arrestato nuovamente nell’estate 2020, ed è oggi in attesa di processo con le accuse di spionaggio e pregiudizio alla sicurezza dello Stato, evasione fiscale di 15 mila dollari in otto anni, aggressione e stupro.
Omar Radi, 37 anni, lavorava per il notiziario “Le Desk”. Il grande scandalo in cui è coinvolto, rappresenta l’insieme di numerosi sistemi repressivi, che lo Stato marocchino adotta contro chiunque abbia un volto pubblico e si dimostri ostile alle autorità. Contro Radi, il Pubblico Ministero ha già posto le basi per l’accusa di violazione dell’art. 206 del codice penale, punibile fino a cinque anni di reclusione. È chiara la volontà di condannare il giornalista per danneggiamento alla sicurezza del paese, attraverso le prove di alcune remunerazioni con cui il giornalista avrebbe svolto attività di propaganda contro lo Stato e le istituzioni marocchine. In realtà – spiega anche un report in merito di Human Right Watch – Radi ha beneficiato di una sovvenzione elargita dalla Fondazione svizzera “Bertha”, al fine di condurre ricerche rispetto agli impatti sociali, economici e politici, che le espropriazioni dei terreni in Marocco possono sortire in barba all’ingiustizia abitativa dei proprietari.
Da non sottovalutare sono le più gravi accuse di stupro contro una collega, che però sembrano essere prive di fondamenta e smentite in alcune interviste, persino dalla donna interessata.
Dal 2015 i tribunali marocchini utilizzano l’accusa dello stupro per incarcerare, diffamare e denigrare persone, in assenza di altro materiale per esercitare arresti e torture indiscriminate. Guardie carcerarie e alti funzionari s’impegnano addirittura a ricreare delle prove schiaccianti, traumatizzando sul piano fisico e psicologico le vittime durante gli interrogatori. Basti pensare che la giornalista Hajar Rassouni era stata nel mirino delle autorità per il suo lavoro su un quotidiano indipendente e perché legata a delle parentele con alcuni dissidenti del Re; eppure, nel 2019 veniva condannata a un anno di carcere per aver praticato un aborto, per poi essere costretta a degli esami ginecologici durante la sua prigionia, che, effettuati contro la sua volontà, hanno costituito una ulteriore violazione dei diritti umani.
Le autorità al servizio del Re Mohammed VI hanno lo scopo ben preciso di mettere a tacere i ribelli creando uno stato di terrore e discriminazione. Da un lato, isolando il tessuto sociale nei territori occupati e, dall’altro, rendendo innocue le voci marocchine fuori dal coro. “Già dall’infanzia, gli studenti non hanno il permesso di parlare il loro dialetto e vengono puniti se si rifiutano di parlare il francese. Ma la prima lezione, la più importante, è non dare confidenza ai bambini marocchini” racconta ancora Dihani, mentre ricorda le parole di sua madre che lo accompagna da bambino a scuola – “se i loro genitori fossero dell’intelligence, potrebbero anche arrestarci”.
Né pane, né libri, né case, né minerali ma campi minati, divieti e torture.
La marcia dell’esercito ordinata dalla monarchia è pronta, si reca a occupare altro spazio. Ma sembra che proprio dal deserto blindato di Guerguerat, si torna a gridare con la voce spezzata. “Prima di ogni oasi, c’è sempre un deserto da affrontare”. Nena News