Prigioniero politico saharawi da dieci anni, di cui gli ultimi tre trascorsi in isolamento, Mohamed Lamin Haddi vuole denunciare le condizioni in cui vive in un carcere marocchino, un destino che lo accomuna a centinaia di altri detenuti saharawi trasferiti a migliaia di chilometri di distanza dal territorio occupato dal Marocco
di Tullio Togni
Roma, 10 marzo 2021, Nena News – Mohamed Lamin Haddi ha superato i 50 giorni nel suo sciopero della fame iniziato lo scorso 13 gennaio nella prigione di El Arjat e proseguito in quella di Tiflit 2, vicino a Rabat, Marocco, dove è stato trasferito il 27 febbraio. Le sue condizioni sono disperate, tanto che la madre ha percorso i 1300 km che la separano dal suo domicilio a El Ayoun, nel Sahara Occidentale occupato dal Regno del Marocco, per vederlo forse un’ultima volta. Ma non le è stato concesso, sulla falsa riga di quanto accade da oltre un anno.
Mohamed Lamin Haddi è un prigioniero politico saharawi arrestato pochi giorni dopo il violento sgombero del campeggio di protesta di Gdeim Izik da parte del Marocco nel novembre 2010, costato la vita a due manifestanti e 11 agenti marocchini. Accusato arbitrariamente insieme ad altre centinaia di saharawi, è fra i 25 che sono poi stati condannati con pene pesantissime, incluse fra i 20 anni di reclusione e il carcere a vita.
Lamin Haddi è stato condannato 25 anni in via preliminare presso il Tribunale militare di Rabat nel febbraio 2013, poi in via definitiva presso la Corte d’Appello di Salé il 17 luglio 2017. Il suo sciopero della fame a oltranza è una risposta estrema al durissimo regime carcerario cui è sottoposto, tanto che ha dichiarato di “preferire la morte rispetto a dover continuare così”: attualmente si trova in prigione da oltre dieci anni, di cui tre, gli ultimi, li ha passati in isolamento; non ha accesso alle cure mediche (è affetto da un’ulcera), non ha la possibilità di leggere e studiare e vive in condizioni igieniche e sanitarie insostenibili, tanto più nella presente situazione di pandemia da Covid-19. Con il suo sciopero della fame rivendica inoltre il riconoscimento dello status di prigioniero politico e di coscienza oltre a un trasferimento in una prigione più vicina ai famigliari residenti nel Sahara Occidentale occupato.
La strategia della dispersione, insieme alle torture e alle punizioni con pene estremamente severe, è una politica adottata dal Marocco anche nei confronti degli altri prigionieri politici di Gdeim Izik, rinchiusi nelle carceri di Tifelte 2, Kenitra, Eit Melloul 1&2, Bouzakern a una distanza che varia dai 600 km ai 1200 km dal Sahara Occidentale. Va inoltre registrato che circa un quarto fra loro è costituito da giornalisti legati alla TV/Radio RASD o a Equipe Media, un collettivo quest’ultimo di giornalismo di denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte del Regno del Marocco nel Sahara Occidentale occupato. Ennesima dimostrazione di come la volontà di far tacere ogni tipo di protesta sia stato il principale criterio nelle condanne per i fatti di Gdeim Izik.
In un territorio occupato militarmente dal lontano 1975 come quello del Sahara Occidentale, la libertà di espressione è il primo dei tanti diritti negati alla popolazione autoctona saharawi. Il Regno del Marocco impedisce ogni forma di associazione e di protesta, procedendo a una violenta repressione. Si tratta di una pratica all’ordine del giorno ma che dallo scorso 13 novembre 2020, giorno della ripresa del conflitto armato fra Marocco e Fronte Polisario dopo 29 anni di negoziazioni farsa servite solo ad allontanare lo scenario di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, si è intensificata ulteriormente.
Numerosi attivisti saharawi sono stati oggetto di arresti arbitrari o sequestri improvvisi da parte dei servizi segreti marocchini, sono stati vittime di pestaggi e torture che hanno riportato la mente ai primi anni di occupazione e alle centinaia di desaparecidos. Non è nuova, dunque, la prassi del Regno del Marocco e la sua tolleranza zero nei confronti di ogni resistenza all’occupazione; non sorprende nemmeno, purtroppo, la sua sicurezza di poter contare sulla complicità della comunità internazionale, dopo aver incassato lo scorso dicembre 2020 il riconoscimento da parte di Trump della sovranità sul Sahara Occidentale, in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele.
Un silenzio, quello della comunità internazionale, ogni giorno più colpevole anche della morte imminente di Mohamed Lamin Haddi. Numerose ong, organizzazioni per la promozione dei diritti umani e contro la tortura, giornalisti e attivisti, ne chiedono la liberazione immediata in ragione delle gravi condizioni di salute in cui si trova, destinate altresì a deteriorarsi se non interromperà al più presto lo sciopero della fame. Codesa, il Collettivo di difensori dei diritti umani nel Sahara Occidentale, ha lanciato una chiamata internazionale per chiedere al Comitato internazionale della Croce Rossa di intervenire. Quest’ultimo, però, ripete che il monitoraggio delle condizioni dei prigionieri saharawi nelle carceri marocchine non rientra nel suo mandato, che si limita all’osservazione dello smantellamento delle mine antiuomo lungo il muro di separazione che attraversa il Sahara Occidentale.
Con buona pace della IV Convenzione di Ginevra e del Protocollo aggiuntivo I del 1977 relativo alla protezione delle vittime di conflitti armati internazionali, sottoscritti dal Regno del Marocco nel 1956 e rispettivamente nel 1977 (ratificato poi nel 2011).
Un silenzio mediatico che sta trasformando lo scontro armato in corso in un ennesimo conflitto infinito a bassa intensità, normalizzando una situazione che da quasi mezzo secolo chiede risposte politiche immediate. Un silenzio che rischia di soffocare Mohamed Lamin Haddi nella sua stessa, ultima, protesta, e farne un altro martire senza volto. Nena News