La definitiva distruzione della Siria, la sua dipendenza dall’esterno, l’appoggio incondizionato della Ue anche di fronte ad abusi dei diritti umani: così potenze globali e regionali maturano i propri interessi particolari sulla pelle dei rifugiati
di Chiara Cruciati
Roma, 29 giugno 2016, Nena News – I numeri snocciolati in occasione della Giornata mondiale del rifugiato dalle Nazioni Unite (65,3 milioni alla fine del 2015, record di sempre con una persona su 113 richiedente asilo, sfollato interno o rifugiato) bastano a spiegare perché la questione dei rifugiati è diventata una questione epocale, che sta segnando e modificando gli equilibri politici ed economici globali. Emergenza, viene definita: un termine erroneo che identifica una situazione di urgenza limitata nel tempo quando quella attuale è destinata a divenire strutturale a meno di cambiamenti immediati delle politiche diplomatiche internazionali.
Il caso siriano, in particolare, va analizzato per le caratteristiche che lo contraddistinguono: si tratta di profughi di guerra e non economici; coinvolge un popolo tradizionalmente non toccato dall’emigrazione di massa – i siriani che prima del 2011 si spostavano in altri paesi, soprattutto nella regione, erano una piccolissima minoranza ed in genere il loro trasferimento era dettato da ragioni lavorative a medi e alti livelli (operai specializzati, professionisti) –; è dettato dal ruolo politico e culturale che la Siria svolge da secoli in Medio Oriente, portando con sé un potenziale distruttivo molto maggiore che in altri paesi.
Può essere utile tornare di nuovo sui numeri, necessari a comprendere la portata del flusso di rifugiati e i suoi effetti politici ed economici sia sulla Siria che sul resto del mondo, in particolare Europa e Medio Oriente: il paese conta 23 milioni di abitanti, di cui 7 milioni sono oggi di IDP, internally displaced people o sfollati interni; 6,6 milioni sono profughi all’estero. Di questi di cui 2,7 si trovano in Turchia, 1,5 in Libano, 1,2 in Giordania, 247mila in Iraq, 117mila in Egitto. Per l’Europa i dati restano difficilmente definibili: nel 2015 erano 381mila gli arrivi sulle coste europee, da allora altre decine di migliaia sono sbarcati prima dell’accordo con la Turchia.
Ciò significa che il 58% della popolazione siriana non risiede più nella zona di origine. A livello economico ciò si traduce nello stravolgimento completo dell’economia siriana, delle reti sociali e relazionali, delle strutture politiche ed istituzionali. Ovvero nel collasso di un paese tra i più stabili del Medio Oriente: l’82% dei siriani rimasti nel paese vive oggi sotto la soglia di povertà, quasi 3 milioni hanno perso il lavoro spingendo il tasso di disoccupazione alle stelle (58%), la produzione agricola è crollata in media del 60%, con quella del grano dimezzata rispetto ai livelli pre-conflitto.
In tale contesto si comprende bene l’utilizzo politico ed economico, strategico e diplomatico, che da anni viene fatto della pelle dei rifugiati siriani. Che gli spostamenti forzati di popolazione abbiano sempre mosso, nella storia, interessi particolari e risposte umanitarie più o meno significative, è un dato di fatto. Ma proprio la centralità della Siria nel panorama mondiale e la strategicità del suo futuro per gli assetti di potere regionali ma anche internazionali hanno trasformato i rifugiati siriani e il loro dramma in una merce di scambio senza precedenti.
In primo luogo un tale sfruttamento personalistico della crisi è alla base del riequilibrio dei poteri a livello globale, tra Occidente e Russia, tornata prepotentemente nell’arena diplomatica mondiale. La Siria non è l’Iraq, la Siria non è lo Yemen. Sebbene Baghdad e Sana’a vivano le loro personali e terribili tragedie, con numeri in percentuale molto simili in termini di sfollati interni, l’importanza rivestita da Damasco è ben altra: con la Siria si tocca e sconvolge l’equilibrio tra i due assi, sunnita e sciita, il Golfo e la Turchia da un lato e Iran-Siria-Hezbollah dall’altro, un equilibrio non certo fondato su basi meramente confessionali (un’imposizione divisiva che è diventata apparentemente imprescindibile dopo la rivoluzione khomeinista) ma su interessi egemonici e di potere economico.
Dall’altra parte la crisi siriana alimenta lo scontro tra Mosca e Washington, camuffato da negoziato e cooperazione indiretta, ma chiaramente volto a ridefinire le zone di influenza in una delle aree più agognate del mondo.
In tal senso la distruzione della Siria come paese guida del Medio Oriente, attraverso la distruzione della sua rete economica, sociale, infrastrutturale, la renderà schiava delle influenze esterne per tempi indefinibili, svuotandola del suo ruolo di leader regionale. A sfruttarne la debolezza sono già adesso alleati ed avversari. Per questo la fuga di massa di 6 milioni di persone e lo sfollamento di altri 7 non può che incidere sul futuro del paese nel post-guerra: la Siria andrà ricostruita, sia fisicamente che sul piano relazionale, sociale, culturale, e nessuna delle potenze che ha accesso e mantenuto vivo il conflitto perderà l’occasione per dettarne tempi e modi. Lo faranno il Golfo e la Turchia che hanno alimentato la guerra con un sostegno cieco ai gruppi islamisti ma anche imponendo condizioni alle opposizioni moderate, oggi loro burattini. E lo faranno Iran e Russia che – sebbene abbiano obiettivi e strategie parzialmente diversi – puntano a farsi protettori (e quindi sfruttatori) del paese che sarà.
Sul piano estero, la crisi dei rifugiati è stata utilizzata a dovere da attori diversi per diversi scopi. Basta buttare lo sguardo a quella striscia di mare che divide la Turchia e la Grecia. Qui in migliaia hanno perso la vita, tentando di intraprendere la strada di una nuova vita, in migliaia hanno cominciato il percorso che li ha portati a scontrarsi con la nuova fortezza Europa, con i fili spinati, i lacrimogeni, i pestaggi della polizia.
Quella lingua di mare è decisiva a comprendere l’utilizzo che dalla crisi siriana stanno facendo i paesi membri della Ue, impegnati in un braccio di ferro senza precedenti per definire aiuti, chiusure, poteri nazionali, per trasformare l’equilibrio interno europeo. Ma anche quelli nazionali: la crescita innaturale e pericolosa dei movimenti populisti, xenofobi e di ultra destra – già rafforzatisi con la crisi e la debolezza della Ue –si è fondata sulla minaccia dello straniero alle porte, sebbene si tratti di numeri irrisori per un continente come l’Europa (che partecipa attivamente alla distruzione dei paesi di provenienza dei rifugiati). Merce di scambio di politica interna, dunque.
In tale apparente caos si infilano paesi extra-europei che hanno ben compreso il ruolo che possono giocare agli occhi della fortezza-Europa. Se l’Europa non vuole i rifugiati, blocchiamoli in cambio di legittimità economica e politica.
È il ragionamento che da mesi muove due paesi in particolare: Turchia e Egitto. Ankara ha agito con intelligenza e sfrontatezza: se da una parte ha accolto 2,7 milioni di rifugiati, un numero decisamente consistente, dall’altra li ha relegati in un limbo privo di dignità. Solo qualche centinaio di migliaia vive tuttora nei campi profughi, luoghi isolati e con scarsi servizi, da quelli medici a quelli scolastici. La gran parte vive nelle città turche, ai margini, costretti in appartamenti piccoli e sovraffollati, a chiedere elemosina per strada o a mandare i figli minorenni a lavorare per riuscire a portare il pane in tavola. Gli uomini che lavorano accettano stipendi da fame che accendono ulteriormente le tensioni con la popolazione turca.
Eppure per l’Europa la Turchia – che sta vivendo al suo interno una guerra civile lunga già un anno contro la popolazione kurda a sud est – è un “paese sicuro” in cui relegare i profughi siriani. Erdogan ha strappato moltissimo a Bruxelles: 6 miliardi di euro; impunità per la campagna militare contro il Pkk in Turchia, nord Iraq e nord Siria; impunità per le campagne contro la società civile, i media indipendenti, ogni tipo di voce critica; accordi economici privilegiati con la Ue e cancellazione dei visti per i turchi che entrano in Europa per lavoro o studio.
L’Egitto di al-Sisi sta facendo la stessa cosa. Con la chiusura delle frontiere orientali europee, moltissimi profughi si sono spostati verso le coste egiziane. Non sono solo africani, la maggioranza: sui barconi in partenza dalle coste egiziane ci sono anche siriani. E qui si intreccia il tris magico che garantisce al presidente golpista altrettanta immunità: gas naturale, lotta all’Isis e battaglia all’emigrazione clandestina. Non è un caso che la scorsa settimana la Commissione europea abbia candidamente dichiarato di voler avviare un negoziato serio con l’Egitto per fermare i rifugiati e i migranti diretti verso le coste italiane.
C’è poi il Golfo con le sue petromonarchie: sebbene Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi siano tra i principali sponsor delle opposizioni moderate e islamiste, i principali responsabili della crescita repentina di gruppi come l’Isis e il Fronte al-Nusra, Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham, non hanno accolto nemmeno un profugo siriano. Le frontiere sono sbarrate, ufficialmente per il timore che un flusso consistente di siriani possa creare tensioni interne e sbilanciare gli equilibri etnici e confessionali interni.
Un’altra ragione, più politica, è che dei profughi siriani sauditi, emiratini o qatarioti non intendono fare merce di scambio perché la loro merce di scambio è ben altra: è il rifornimento dei gruppi di opposizione, è il ruolo destabilizzatore ma centrale a cui l’Occidente non intende rinunciare. Qui i rifugiati non sono calcolati perché non servono ai piani egemonici del Golfo.
In tale intreccio di interessi, la società civile ha un ruolo centrale: togliere la questione dei rifugiati dalle mani delle potenze regionali e globali, facendo pressioni sui propri governi perché cessino i rapporti con chi sfrutta la crisi per interessi interni ed esterni e usa i rifugiati come copertura alle violazioni costanti dei diritti umani. Un percorso non semplice ma che toglierebbe il dolore immane di un popolo costretto alla fuga dalle mani di aguzzini di Stato. Nena News
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati
E’ una bellissima analisi, però non sono d’accordo su un punto, che mi pare importante. La collega Chiara Cruciati scrive che in Turchia solo alcuni migranti sono stati inseriti nei campi profughi, molti altri vivono nelle città, nei sobborghi. Se tu fossi una migrante, cara collega, e ti trovassi a dover chiedere asilo politico, avresti piacere ad essere scortata dalla polizia su un pullman e costretta a vivere in una specie di carcere, che tu chiami campo profughi, invece di essere trattata da libera quale sei? Abbiamo proprio perso il concetto di asilo politico. E poi non sappiamo come in uno Stato ci si possa inserire. Se l’unico modo per campare è la paghetta che prendono i migranti, beh allora qui c’è da ricostruire la società. Oddio, certo che i sobborghi urbani non siano un granché nelle città metropolitane lo sappiamo dall’inizio della seconda rivoluzione industriale. Ne nacque il socialismo, ma questa è storia vecchia. Chi si considera giornalista oggi, e spesso è di sinistra, ritiene che un cittadino debba vivere sempre con l’accompagnamento dei servizi sociali? Oppure può esistere una società del benessere, una politica seria fatta di persone preparate, che costruiscano un mercato libero in cui tutti possano guadagnare fino a comprarsi anche una seconda casa?