La seconda parte del racconto di Nassi LaRage da Raqqa, Roj Camp a Derik, Camp Ain Issa e dal famigerato Al Hol Camp ad Hasakah. Voci e immagini da luoghi quasi sempre inaccessibili
di Nassi LaRage
Per la prima parte del racconto pubblicata ieri si clicchi qui
Baghuz (Siria), 24 maggio 2019, Nena News – Una compagna italiana che ho avuto modo di conoscere a Baghuz, ha descritto bene una situazione che si può solo immaginare non vivendo in guerra: “Quando abbiamo liberato la prima zona di Baghuz siamo entrati nelle case e nella tende della gente. I bambini ci insultavano in arabo mentre li tiravamo fuori dalle case con le loro madri e mentre portavamo via gli uomini, i loro padri e fratelli. Io sono anarchica, ho sempre odiato la divisa. Ho deciso di indossare quella delle YPJ perché questa è una rivoluzione a cui voglio partecipare, ma siamo soprattutto umani e ho capito i pensieri di quei bambini: nella loro testa noi siamo i soldati che li hanno allontanati dalle loro case, che hanno interrotto la loro quotidianità, che hanno ammazzato o arrestato i loro padri e che fanno soffrire in campi profughi le loro madri”.
Chi di loro ha meno di cinque anni è nato e vissuto sempre in guerra, i più grandi si sono disabituati a una vita in pace. La distruzione dello Stato Islamico per loro ha voluto dire rimanere senza una patria. Non importa se nelle città del Califfato la gente moriva incarcerata, se le esecuzioni capitali in piazza erano giornaliere, se non si viveva in tranquillità e in pace, se non andavano a scuola e passavano la loro infanzia a imparare a sparare… Quella era la loro quotidianità. Così come lo era avere una schiava yazida in casa, avere una madre completamente coperta da capo a piede, o un padre combattente. Per loro è stato normale crescere temendo la morte che cade dal cielo, perdere gli amici, i propri genitori naturali, patire la fame.
Non hanno colpe. Il futuro di queste donne invece risulta difficile da immaginare, anche chi si dice pentita esprime nei ragionamenti l’efficacia dell’indottrinamento avuto nel Califfato. Le donne di Daesh hanno avuto un ruolo importante nella costruzione dello Stato Islamico dopotutto: il controllo domestico e sociale in assenza del capo-famiglia (quando quindi è in guerra), l’arruolamento di altre donne con l’uso di internet, l’indottrinamento dei figli. Alcune di loro hanno anche combattuto nelle ultime fasi della guerra. Non sono tutte innocenti come dicono. Il destino quantomeno delle siriane può essere scelto solo davanti a un tribunale popolare in Rojava, magari a Kobane come ci ha accennato Nisrin Abdullah quando l’abbiamo incontrata: “Il segreto della forza di Daesh sta nel ruolo delle donne che sono complici di un’ideologia creata da uomini per gli uomini. Queste non sono vittime, sono persone sicuramente da riabilitare. Ma anche da giudicare. Verranno portate a una corte a Kobane e serviranno poi almeno 10 anni per risistemare le loro menti”.
La portavoce dello YPJ ha evidenziato le chiare problematiche di questa situazione: “I Paesi europei si dovrebbero chiedere perché i propri cittadini hanno deciso di partire per arruolarsi con Daesh. I loro concittadini sono diventati terroristi nelle città dove sono nati, non una volta arrivati in Iraq e in Siria. Ora dobbiamo gestire questo grosso problema insieme, perché dopo la guerra c’è sempre un’altra guerra”. Le parole di Nisrin Abdullah, portavoce dello YPJ non lasciano spazio a interpretazione. E’ chiaramente consapevole della pericolosità della situazione; sa bene che in Rojava c’è una bomba che sta per esplodere, e più passa il tempo più la situazione non può far altro che peggiorare.
A gestire questa drammatica situazione umanitaria e sociale i curdi sono da soli. Basta sapere che il Segretario degli Esteri britannico e anche quello tedesco hanno detto che è troppo pericoloso per i diplomatici recarsi in Siria, un luogo dove non ci sono consolati né ambasciate. Non esiste ancora un piano per rimpatriare donne e bambini, molti dei cui mariti sono stati uccisi. La Russia, il Kosovo e gli Stati Uniti invece hanno riportato indietro alcuni dei loro concittadini, mentre la Francia ha ritirato una manciata di orfani. L’Iraq si prepara a riprendersi la sua gente, i prigionieri di alto valore andranno per primi e saranno quasi certamente giustiziati, e le donne e bambini li seguiranno. I campi sono già in preparazione non molto lontano da Al Hol, sul lato iracheno del confine.
“Cosa pensi che si debba fare con tutta questa gente del califfato ora che Isis non esiste più?”, ha chiesto Benni durante l’intervista al giovane ragazzo italiano di origini marocchine che avevamo di fronte.
“E’ difficile da capire quello che ti sto per dire”, ha risposto Monsef El Mkhayar mantenendo un tono di voce molto basso, “ma io credo che la cosa migliore che si possa fare con loro (i miliziani di Isis, ndr) sia di trattarli bene”. E’ stanco di tutta questa violenza, ha sofferto la fame con tutta la sua famiglia per 10 giorni prima di essere colpito da un missile. Ha perso l’uso di una gamba e quel giorno è stato arrestato. Parla di un incubo senza fine, crede ancora sia possibile risolvere tutto parlandone.
Monsef sui documenti è del 1995. Nel gennaio del 2015, allora 18enne, è scappato con un altro ragazzo dalla comunità Kayros di don Claudio Burgio a Milano, ed entrambi volevano combattere a fianco dell’Isis. Una volta scappato da Milano è arrivato in Turchia dove è rimasto nascosto con l’aiuto di un uomo per una settimana. Ha successivamente varcato il confine siriano ed è diventato un foreign fighter. Appena arrivato, come ci racconta, era felice perché finalmente viveva libero: lontano dalla sua storia fatta di un’infanzia difficile senza genitori, dai problemi con i parenti, lontano dal carcere. Scappa dopo essere stato contattato da un uomo su Telegram.
Ci racconta: “Facevo hip-hop ai tempi, guardavo tanti video su Fb e su Telegram. Ne stavo guardando uno, la musica mi piaceva e il video era uno di quelli di propaganda dell’Isis. Mi sono piaciuti, erano discorsi seri contro Assad e il suo esercito violento. In quel momento mi ha scritto un uomo dicendomi se volevo unirmi a loro, allo Stato Islamico. Mi avrebbero pagato un biglietto per Istanbul e aiutato a raggiungerli a Raqqa”. Cosi inizia la sua storia, è contento quando arriva. Però qualcosa si rompe, non ci spiega bene quando.
A un certo punto non vuole più stare li, se ne vuole andare e prova anche a scappare da Raqqa, ma proprio mentre è nascosto da un amico viene trovato e arrestato dai miliziani. Dopo una settimana viene liberato, c’è bisogno di uomini. Monsef dice di essersi innamorato di una curda, Marwa. Si sono sposati dopo aver convinto i genitori di lei, che allora aveva 16 anni, e hanno avuto due figli. Era incinta del terzo quando sono stati arrestati dalle SDF, ora lei sta ad Al Hol assieme a tutta la sua famiglia. Se tutto rimarrà com’è, Marwa o il nascituro moriranno di parto tra il freddo e il fango del campo. Di fronte a me ho un ragazzo più giovane che alla domanda di Benni: “Qual è la cosa che desideri di più?”, non ha risposto ‘tornare libero/tornare in Italia/riavere una vita normale’, ma ha risposto: “Vorrei vivere in mezzo al deserto con una tenda, Marwa e i miei figli e dimenticare questo incubo che stiamo vivendo”.
Certo, se lui come tanti altri se ne fosse stato a casa e non fosse partito seguendo il richiamo dei jihadisti, tutto questo si sarebbe potuto evitare. La sua vita sicuramente sarebbe stata migliore, ma anche la vita di tutte le persone che il suo battaglione avrà attaccato, ferito, ammazzato… Ad oggi non possiamo sapere. Dopo l’intervista ci siamo fumati una sigaretta, mi ha chiesto se in Italia si parla di lui, se sanno che si era fatto trascinare, che aveva sbagliato ma che lui e la sua famiglia erano state delle vittime di un sogno divenuto incubo; si erano illusi che si potesse vivere in pace professando la fede dei loro avi, che non ci fosse discriminazione, corruzione, che avrebbero vinto contro gli imperialismi per un’unica grande nazione islamica.
Gli ho risposto che in Italia i tempi sono marci. Anche se volesse non potrebbe ora tornare a scontare la sua pena nella sua città. “Ti devi aiutare da solo”, gli ho detto, facendogli presente che ora che lo Stato Islamico non esiste più, chi viene catturato dice la stessa cosa di tutti gli altri, ‘ho sbagliato, non ho fatto niente, non c’entro niente’. Questo non l’avrebbe aiutato, avrebbe dovuto collaborare. “Non parlano con me, mi hanno interrogato solo pochi minuti appena mi hanno arrestato. Sto sempre da solo, hai un libro in italiano?”, e cosi gli ho regalato ‘Oltre lo Stato, il potere e la violenza’ di Abdullah Ocalan.
Appena è uscito sono crollata, non ce l’ho fatta a parlare per tutto il giorno. Ho fatto fatica a capire il perché della mia infinita tristezza causata da Monsef, e del mio senso di impotenza. Fino a sera, che mi è venuto in mente un episodio di anni fa: ricordo che la prima volta che ho sentito parlare di IS non ho voluto informarmi. Sono cresciuta con la paura collettiva per l’islamico, sono cresciuta con gli attentati delle Torri Gemelle, sono cresciuta con la dicotomia musulmano-terrorista. Un amico un giorno è venuto da me e mi ha chiesto: “Cosa pensi di Isis?”, e io poco seria e poco informata gli risposi “Finalmente qualcuno che in quelle terre caccia via gli americani!”. Risate. A distanza di anni posso ringraziare la mia comunità, i miei compagni e le mie compagne, le relazioni che ho allacciato e la libertà che mi ha permesso di riuscire ad analizzare meglio ciò che era Daesh.
Voi direte, e che ci voleva? Basta guardare un telegiornale, basta leggere un articolo in più per informarsi al meglio su una questione. Ecco, non è cosi semplice per tutti. Soprattutto per chi tenta di costruire un’identità lontano dal proprio paese d’origine, per chi non ha modo di avere le stesse possibilità di chi nasce già europeo; perché magari è una seconda-generazione e gli ostacoli sono tanti da affrontare. Emarginare e discriminare il diverso non può che essere nocivo per una società.
C’è chi ha un’indole debole e cede ai soprusi attuando le stesse dinamiche che subisce. Trovate difficile immaginare un essere umano che subisce scene di ordinario razzismo, xenofobia, islamofobia convertire la propria frustrazione in odio per il bianco?
La mancanza di integrazione, la mania di creare barriere tra le persone non può che collaborare alla degenerazione dei rapporti. Ho pensato spesso a Monsef, se al posto di aver dato retta al suo smartphone avesse parlato di più con il don che ora chiede a gran voce di riportarlo in Italia e riabilitarlo. La storia di Monsef è una delle tante storie di stranieri che hanno deciso di aderire a Isis. Ci sono giovanissimi che si sono lasciati alle spalle famiglie disperate per la loro scelta; ci sono figlie in fuga dai genitori razzisti come la belga bionda con gli occhi azzurri, Cassandra Badout, che siamo riuscite ad intervistare. Nadim Houry, direttore del programma di terrorismo e antiterrorismo per Human Rights Watch, ha affermato che donne e bambini stranieri sono rimasti bloccati in un ‘vuoto legale’: Mentre il diritto internazionale obbliga i loro paesi ad accoglierli se tornassero a casa, non obbliga i loro governi a rimpatriarli attivamente, e soprattutto non esistono precedenti eguali a questo.
Bisogna infatti evidenziare che Daesh è la prima cellula islamica terroristica che non promette solo una vita paradisiaca ultraterrena una volta diventati martiri nella strada della jihad. Promette dei soldi, delle schiave e soprattutto uno Stato. Nel frattempo queste donne non sono in attesa di processo per crimini che potrebbero aver commesso, né sono libere di andarsene. Al Hol presenta all’Occidente una dura questione e diverse domande che esigono risposta, vista la delicatezza della situazione di questi campi-prigione. Quanta misericordia deve essere mostrata a un nemico che all’apice della sua forza non ne ha mostrata nessuna? E cosa ne sarà di queste donne straniere e dei loro figli ora che IS è territorialmente sparito? Nena News