A 20 minuti da Ramallah, ancora in costruzione, l’enorme cantiere che l’élite economica palestinese definisce il modello per il futuro. Ma i critici parlano di normalizzazione con Israele e distruzione delle basi produttive nazionali.
di Chiara Cruciati*
Rawabi, 5 dicembre 2014, Nena News – Venti minuti di macchina da Ramallah, salendo verso il Nord della Cisgiordania, tra le colline e i piccoli villaggi palestinesi, il rumore delle ruspe rompe il silenzio del tranquillo angolo verde alle porte della grande città palestinese.
Il vento soffia forte. Gli operai nei tanti cantieri aperti sono concentrati nel lavoro. Si chiamano da un pontile all’altro, qualcuno impegnato nella costruzione del minareto, altri nelle impalcature del nuovo centro commerciale. La nostra guida ci chiede di indossare pettorina e casco di sicurezza durante la visita alla nuova città di Rawabi: 630 ettari di superficie, ventitré quartieri, innumerevoli negozi, sette banche, un anfiteatro, uno stadio, una chiesa e una moschea, palestre e spa, hotel a 5 stelle.
Un progetto imponente che supera il miliardo di dollari, specchio del nuovo corso intrapreso dalla debole economia palestinese, sempre più dipendente dai concetti del libero mercato e dalle politiche neoliberiste imposte dall’ex governo Fayyad e dai finanziatori internazionali.
Rawabi (che cade per il 90% in Area A, sotto il controllo civile e militare palestinese, e per il 10% in Area C, sotto il totale controllo israeliano) ospiterà nei primi anni – prevedono i costruttori – 30mila persone, che diventeranno 40mila nel giro di una decina di anni. Dietro al progetto, sta il magnate palestinese americano Bashar al-Masri, imprenditore miliardario attivo nel settore delle nuove tecnologie, e il Qatar che a favore del nuovo progetto ha già donato il 70% dell’investimento iniziale.
Dopo tre anni di lavori, il primo quartiere è terminato, in attesa delle prime famiglie che si trasferiranno a primavera. Anfiteatro, sede del municipio e moschea sono quasi completati, insieme al centro commerciale che sorgerà nel cuore della nuova città, pronto ad ospitare negozi e marchi internazionali e facilmente raggiungibile da ognuno dei 23 quartieri residenziali. Prevista anche una zona industriale che per ora fa da magazzino di stoccaggio dei materiali di costruzione e da cava per la famosa pietra di Birzeit, tipica di queste zone, con la quale saranno costruiti tutti i palazzi e gli edifici di Rawabi.
“I nostri magazzini sono pieni di materiali – ci spiega Jack Nassar, portavoce del progetto Rawabi – Ne abbiamo raccolti più del necessario per evitare ritardi nei lavori nel caso Israele ci impedisca di portarne altri o blocchi i camion in arrivo. La strada che conduce a Rawabi, da Ramallah, è in Area C e c’è sempre la possibilità che le autorità israeliane pongano restrizioni al movimento”.
A poche centinaia di metri in linea d’aria dalla zona industriale di Rawabi, la collina opposta è occupata dalla colonia di Ateret, 400 coloni israeliani residenti, a volte protagonisti di aggressioni verso gli operai impegnati nella costruzione della nuova città palestinese.
Per il resto, i rapporti commerciali e finanziari con la controparte israeliana vanno a gonfie vele: la maggior parte delle compagnie coinvolte nel progetto Rawabi è israeliana, una componente che ha fatto storcere il naso a gran parte della società civile palestinese, che vede nella nuova città una pericolosa forma di normalizzazione dei rapporti con il potere occupante.
A Rawabi non si fanno problemi di sorta: “Si tratta di un progetto privato che non ha niente a che vedere con la politica – continua Nassar – L’Autorità Palestinese, ad esempio, ha solo fornito i permessi e, una volta completati i lavori, fornirà i servizi pubblici. Ma non ha investito un dollaro”.
Attraversiamo una rotonda stradale: al centro una roccia rompe il pavimento dal quale spuntano fili d’erba verde. “La roccia rappresenta Israele e il tentativo di rompere l’unità palestinese. I fili d’erba siamo noi, il popolo palestinese che sopravvive nonostante tutto”. Bashar al-Masri ci tiene a fare della città un simbolo palestinese, nonostante le critiche che continuano a piovergli addosso per i rapporti troppo stretti con compagnie israeliane e per il tentativo di radicare le regole del neoliberismo come unica forma economica in Cisgiordania.
Girando per la città la necessità di trasformare il popolo palestinese in una comunità di consumatori è palese: negozi e centri commerciali sono previsti in ognuno dei 23 quartieri, lo stesso anfiteatro di stile romano ospiterà ristoranti, cafè e negozi di marche internazionali. Ovunque, parcheggi dai due ai nove piani, per ospitare le automobili che Rawabi aspetta da ogni parte della Cisgiordania.
“Il nostro obiettivo è attirare la classe media, le giovani coppie, le nuove famiglie, i laureati – spiega Nassar – I prezzi delle case sono in media il 25% più bassi di un appartamento a Ramallah. Le grandezze cambiano, offriamo appartamenti da 92 a 340 metri quadri, il prezzo va dai 100mila ai 150mila dollari in media. Per chi non può permettersi di acquistare subito, abbiamo messo a disposizione sette diversi istituti bancari, tutti concentrati nel centro direzionale. Il nuovo acquirente può venire qui, scegliersi l’appartamento e chiedere un mutuo”.
“Il nostro motto è chiaro: Vivere, Lavorare, Crescere. Vogliamo che Rawabi diventi un polo di attrazione per tutta la Palestina, che verrà qui per lo shopping e per il divertimento. I negozi sono già pronti, gli spazi già acquistati da boutique e marchi internazionali. Su internet, chi vuole, può direttamente presentare domanda per aprire un negozio o una società. Quello che vogliamo è proprio questo: che i futuri acquirenti vengano qui e trovino tutto quello di cui hanno bisogno. Tutto deve essere pronto e a disposizione, ogni bisogno deve essere soddisfatto”.
Al grande centro commerciale in mezzo alla città – arcate che ricordano i suq palestinesi, un museo e un teatro, uffici all’ultimo piano e boutique a pianoterra – si accede da quattro porte, tre battezzate con il nome di una città palestinese (Gerusalemme, Nablus e Gaza) e l’ultima, in onore del generoso donatore qatariota, chiamata Doha.
Entriamo in uno dei palazzi del primo quartiere: gli appartamenti sono spaziosi, ognuno dotato di un ampio balcone. Negli spazi comuni, è prevista una grande lavanderia dove i futuri inquilini potranno lavare e stendere la biancheria, così da “non rovinare l’immagine esterna dell’edificio e quindi del progetto nel suo complesso”. “Sui tetti ci saranno solo i pannelli solari, mentre le tubature dell’acqua e la rete elettrica passeranno sotto terra. Tutta la città sarà connessa a internet”.
Fuori un gruppo di operai pavimenta il centro commerciale: “Abbiamo assunto 4mila lavoratori – conclude Nassar – Vengono pagati di più della media palestinese, circa 600 dollari al mese. Abbiamo anche molte società appaltatrici e subappaltatrici: in questo caso, sono loro a definire i salari direttamente con gli operai”.
La conclusione dei lavori è prevista tra sei anni. Nel frattempo il centro direzionale mostra ai futuri acquirenti come apparirà Rawabi: decine di palazzi occuperanno il fianco della collina, intervallati da qualche albero e tanti parcheggi; dall’alto il centro commerciale, raggiungibile a piedi dai diversi quartieri residenziali controlla dall’alto la prima moderna città palestinese, simbolo del rampante neoliberismo intrapreso da Ramallah.
Un capitalismo moderno, fondato sui servizi e sull’abbandono dell’economia di produzione, che negli ultimi anni ha dato origine ad una bolla difficilmente sostenibile: “Oggi il governo di Ramallah ha un debito di oltre 4,3 miliardi di dollari – ci spiega Basel Natsheh, professore di Economia all’Università di Hebron – Un gap frutto delle politiche economiche intraprese e di un consistente livello di corruzione interna. L’Autorità Palestinese è un governo fantoccio, senza alcun tipo di potere reale: serve solo a garantire gli interessi dell’élite politica che è anche l’élite economica palestinese. I ministri sono dei tribuni. Non solo: l’ANP è priva di una qualsiasi strategia economica di lungo periodo: per coprire il deficit e tentare di affrancarsi almeno in parte dagli aiuti internazionali (che oggi rappresentano il 75% del bilancio palestinese, ndr) la sola azione prevista è l’aumento delle tasse”.
“L’obiettivo dichiarato è coprire il 65% del budget attraverso l’innalzamento delle tasse. Un obiettivo irraggiungibile per una società che non produce quasi più nulla. Questa è la peggiore forma di capitalismo: un neoliberismo fondato sui servizi e disconnesso dalla realtà. Le conseguenze potrebbero essere fatali, arriveremo ad un punto in cui ad essere garantita sarà la mera sopravvivenza. Sono riusciti negli ultimi anni a rendere la società palestinese sempre più individualista, ognuno alle prese con i propri problemi quotidiani, senza più alcuna fiducia verso movimenti collettivi, partiti, sindacati. Il sistema che si sta imponendo è quello dell’indebitamento: mutui e prestiti per l’acquisto di automobili, elettrodomestici, telefonini. Le banche elargiscono denaro ad un popolo con salari bassi, ma solo per il consumo. Quasi impossibile ottenere un mutuo per l’avvio di un’impresa o di una qualsiasi attività economica produttiva”.
A monte sta la nascita di un’élite economica figlia degli Accordi di Oslo e del Protocollo di Parigi che in breve tempo è diventata élite politica: la società palestinese ha visto aumentare a dismisura il gap tra classi ricche e classi povere. “La peggior faccia del neoliberismo nostrano – continua il professor Natsheh – Le classi più ricche, una ridottissima minoranza, accumulano benessere e fanno affari con l’occupazione. Necessitano dell’attuale status quo per poter continuare a gestire i propri affari, strettamente connessi con l’economia israeliana, seppur siano consapevoli del veloce deterioramento delle condizioni di vita del resto del popolo palestinese. Rawabi ne è un esempio lampante: sono compagnie israeliane che lavorano nella nuova città. Se davvero Rawabi deve fare da modello per l’economia palestinese, perché gli appalti non sono stati affidati a società palestinesi? Non solo si legittima l’occupazione, ma si trae profitto da essa. Il nuovo capitalismo palestinese cammina di pari passo all’occupazione, avanzano in parallelo”.
La chiamano “normalizzazione”: trattare Israele, le sue istituzioni e le sue compagnie come un partner normale e non come il potere occupante. Nelle eleganti terrazze di Rawabi, nelle sue boutique lussuose e negli hotel a 5 stelle, chi arretra ancora nella scalata verso il riconoscimento dei propri diritti è il popolo palestinese.
*Articolo pubblicato in origine sulla rivista Rassegna Sindacale