REPORTAGE. La particolarità di questo villaggio beduino della Valle del Giordano era tutta nella portata dell’acqua che fino a pochi anni fa era tale da superare le leggi di gravità e, in alcuni punti, scorreva in salita secondo l’andamento delle colline. Questa zona è ora diventata di fatto un deserto a causa sia degli insediamenti ebraici che delle attività della società israeliana Mekorot
di Patrizia Cecconi
Gerico, 11 luglio 2016, Nena News – “Il processo di pace ha significato l’autorizzazione al furto di terra e di acqua”. Inizia così, con una dichiarazione lapidaria resa in un inglese basico, ma inequivocabile, l’intervista al sindaco di Al Auja, villaggio beduino nei pressi di Gerico, nella Valle del Giordano.
Un incontro inizialmente quasi strappato e poi, inaspettatamente, protrattosi a lungo e arricchito da un’escursione in collina per “capire meglio”. Un’escursione sotto un sole inclemente, lunga e faticosa ma che è riuscita a raccontare quanto accaduto in questi anni parlandoci per immagini: la sorgente che dà il nome al paese è asciutta. La stessa sorgente che forniva 2.000 m3 l’ora in ogni stagione e che rendeva la zona famosa per i suoi bananeti ora è secca.
Le colline sono aride e si stenta a credere che solo una ventina di anni fa questa terra giallastra e pietrosa fosse una distesa di verde. Restano qua e là in tutta l’area solo tre o quattro vecchi alberi di ziziphus radicatisi molti anni fa e le cui radici sono così profonde da poter resistere alla siccità indotta.
Lungo l’alveo di quello che era il fiume che rendeva fertile la zona, in prossimità della sorgente, resiste anche qualche canneto, dimostrazione del fatto che una dose di umidità è rimasta, ma che l’acqua è diventata talmente poca da nutrire solo i vegetali che costeggiano le vecchie sponde o che hanno radici sufficientemente profonde per succhiare quel che non ha ancora succhiato la Mekorot, le cui pompe sono ben visibili sulla collina. La stessa Mekorot*, però, deve accontentarsi di quel che resta dopo che la falda è stata interrotta qualche chilometro a nord, in prossimità di Taybeh per fornire acqua a due insediamenti ebraici**, ovviamente illegali, stabilitisi nei pressi di Ramallah, esattamente Beit El e Bzigot.
Al Auja, il nome che il paese ha mutuato dalla sua sorgente, significa “che va al contrario” ed il perché è tutto nella portata dell’acqua che fino a pochi anni fa era tale da superare le leggi di gravità e in alcuni punti scorreva in salita secondo l’andamento delle colline. A dar prova della sua portata ci sono i resti di un acquedotto romano di circa 2000 anni fa e di un acquedotto ottomano vecchio di alcuni secoli. Ora sono solo pietre, interessanti per chi ama fare escursioni archeologiche e non di meno per chi cerca la verità: questa zona non era un deserto e lo è diventato dopo il furto dell’acqua dovuto sia all’impoverimento della falda a causa dell’emungimento di pozzi utili agli insediamenti illegali intorno a Ramallah, sia alle altre attività della società Mekorot – di cui l’italiana Acea è partner – sul territorio di Al Auja.
Altra caratteristica di questo villaggio, che oggi conta solo 5.600 abitanti contro i circa 11.000 del 2002, è quella di aver visto la trasformazione del modello di vita delle comunità beduine di questa zona – prima basato su un’economia prevalente nomade legata alla pastorizia – in comunità prevalentemente stanziale, come vuole un’economia agricola, proprio perché la grande fertilità del terreno permetteva di coltivare ogni cosa, tanto che le banane di Al Auja erano famose per qualità oltre che per abbondanza. Fino a una quindicina di anni fa l’agricoltura locale richiamava braccianti da tutto il distretto di Gerico. Questi, dice il sindaco, diventavano parte della comunità in quanto tornavano nei villaggi di provenienza solo due giorni alla settimana. Ora la situazione economica è precipitata e la sorgente riesce a mandare acqua solo un paio di mesi l’anno, cosa che consente la coltivazione di alcuni ortaggi stagionali ma non certo di alberi da frutta, tanto meno banani che richiedono acqua in abbondanza. Quelli crescono altrove e Al Auja se vuole mangiare banane, arance o mele può farlo sostenendo l’economia israeliana o addirittura quella delle colonie che la circondano.
Nella “baladia”, ovvero nella sede del municipio, si viene accolti da un affresco murale un po’ naif ma molto eloquente, al centro del dipinto è rappresentato lo scorrere impetuoso di un torrente nato dalla sorgente, ai lati una donna, un uomo, alberi e animali a simboleggiare la vita data dalla sorgente. Il sindaco ci tiene a spiegarne il significato, benché sia facilmente intuibile, e poi aggiunge ancora dei numeri, prima del “67 – dice – la comunità raccoglieva 18.000 persone, prevalentemente beduini, comprese anche alcune famiglie profughe del “48. Aggiunge che nel distretto di Gerico, di cui Al Auja fa parte, prima del “67 abitavano 250.000 palestinesi contro gli attuali 60.000. Poi, con voce sicura, prima in arabo e poi, forse per accertarsi che la traduzione sia giusta, in inglese, dice testualmente: “ci hanno ingannato parlandoci di Autorità Palestinese, ma quando diciamo ‘autorità’ palestinese diciamo una grande bugia perché qui l’autorità è solo israeliana”. Non è una critica all’Anp la sua, è qualcosa di diverso e forse di più. C’è una costernazione nelle sue parole che alla fine lo porta a dire che forse era meglio la vecchia civiltà beduina in cui tutto, compresi gli incontri ufficiali, si svolgeva nelle tende, che non una finzione di autorità istituzionale che non ha alcuna autorità reale.
Lo sconforto che induce queste riflessioni è facilmente comprensibile, basta guardarsi intorno. Nonostante una serie di organizzazioni di vari paesi abbia dato vita alcuni anni fa a un programma di carattere ambientale per garantire la somministrazione di acqua alla comunità di Al Auja, ristrutturando le vecchie tubazioni che della poca acqua a disposizione molta ne perdevano durante il percorso ed un nuovo serbatoio per garantire acqua potabile, la situazione non può definirsi neanche lontanamente risolta. Oltre alle abitazioni, in cui l’acqua è comunque scarsa e comunque fornita dalla società nazionale israeliana Mekorot che la preleva dalle falde acquifere della Cisgiordania e la rivende a discrezione e a caro prezzo ai palestinesi che ne sono stati espropriati, c’è la necessità di risorse idriche per le coltivazioni e qui la situazione finora non vede sbocchi e l’agricoltura non vede sviluppi. [continua domani..]
Note:
* Mekorot è la società nazionale israeliana per l’estrazione e la distribuzione dell’acqua. Opera illegalmente, secondo la legalità internazionale, nei territori palestinesi, sottraendo acqua alle comunità palestinesi e distribuendola alle colonie, anch’esse illegali secondo la legalità internazionale, e allo stato di Israele in misura pari all’80e in qualche caso al 90% del totale contro un 20 o 10% lasciato ai palestinesi sul cui territorio si trovano le risorse idriche. Poco più di due anni fa la società italiana ACEA ha sottoscritto un’intesa con la Mekorot , intesa addirittura patrocinata dall’allora presidente del Consiglio Letta e dal suo omonimo israeliano Netanyahu ufficialmente presenti a suggellare l’accordo.
** Diciamo ebraici e non israeliani perché lo stato di Israele, come autoproclamato da Ben Gurion nel 1948 e come previsto dalla Risoluzione ONU 181 non prevede insediamenti di cittadini israeliani su territorio palestinese. Pertanto gli abitanti di quegli insediamenti non possono essere definiti israeliani per la legalità internazionale sebbene Israele li definisca tali in nome della religione che professano, cioè la religione ebraica.
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