Ieri il dissidente emiratino Ahmad Mansour è stato fermato dalle autorità di Abu Dhabi perché accusato di “crimini cibernetici”. Nelle stesse ore, l’attivista bahreinita Ibrahim Sharif era incriminato da Manama per “istigazione all’odio”. In Arabia Saudita, intanto, il governo aumenta le pressioni sulle aziende per l’assunzione di personale saudita
di Roberto Prinzi
Roma, 21 marzo 2017, Nena News – Non c’è pace per i dissidenti politici nel Golfo. Secondo l’agenzia emiratina Wam, ieri il noto attivista per i diritti umani negli Emirati arabi uniti (Eau), Ahmad Mansour, è stato fermato dalle autorità di Abu Dhabi perché accusato di “crimini cibernetici”. Il suo “reato”, riporta la Wam, è stato “diffamare l’Eau” su Twitter e Facebook pubblicando “false informazioni sul Paese danneggiandone così la reputazione all’estero e incoraggiando il settarismo [all’interno]”. Mansour – famoso per aver ricevuto lo scorso anno il prestigioso premio Martin Ennals per aver denunciato con il suo lavoro gli arresti arbitrari, i casi di tortura e la mancanza di indipendenza dell’apparato giudiziario nel suo Paese – è stato arrestato ieri sera durante un blitz delle forze di polizia nella sua casa nell’emirato di Ajman. Sono poche finora le notizie relative al fermo di Mansour: non è chiaro dove l’attivista sia detenuto e per quanto tempo resterà in carcere. Per il momento le autorità locali preferiscono tenere la bocca cucita e poco spazio ha il suo arresto sulla stampa emiratina. Diversa, invece, è stata la reazione delle ong internazionali per i diritti umani che hanno chiesto il suo immediato rilascio.
Non se la passano meglio i dissidenti nel vicino Bahrain. Ieri, infatti, l’Istituto per i diritti e la democrazia del Bahrain, ha fatto sapere che l’attivista Ebrahim Sharif è stato accusato di “istigazione all’odio” contro il governo dopo essere stato interrogato dalle autorità locali. Sharif è l’ex leader del partito Waad, un partito politico tendenzialmente laico e di sinistra impegnato da tempo in un braccio di ferro giudiziario con il governo che non ha mai nascosto la sua intenzione di volerlo sciogliere. La biografia di Sharif è simile a quella di molti che si oppongono alla monarchia di re Hamad: imprigionato per più di 4 anni per il ruolo svolto nelle proteste del 2011, è stato nuovamente arrestato poco dopo essere stato rilasciato nel 2015 ed è rimasto in galera per più di un anno.
Continua così indisturbata la repressione del dissenso nella monarchia sunnita (in un Paese a maggioranza sciita). A inizio mese il parlamento ha approvato un cambiamento costituzionale che permetterà alle corti militari di processare i civili. Un provvedimento, quest’ultimo, che è solo l’ultimo di una lunga serie di misure contro l’opposizione. L’impennata repressiva si è registrata lo scorso giugno: nel giro di due settimane è stata tolta la nazionalità all’importante guida religiosa sciita Shaykh Isa Qassim, è stato bandito il principale partito di opposizione (al-Wefaaq), è stato arrestato il noto attivista dei diritti umani Nabeel Rajab ed è stata costretta all’esilio la dissidente Zeinab al-Khawajah perché minacciata di essere nuovamente arrestata per un periodo di tempo indefinito. Si tenga presente poi che pure Ali Salman, il leader di al-Wefaaq, è in prigione dove sta scontando una pena di nove anni.
In risposta al duro giro di vite operato da Manama, sono aumentati gli attacchi contro le forze di sicurezza locali rivendicati per lo più da gruppi sciiti. Il governo punta però il dito contro l’Iran accusando la Guardia rivoluzionaria di aver addestrato e armato gli oppositori. Le tensioni nel Paese si sono acuite lo scorso gennaio quando le autorità locali hanno giustiziato 3 uomini colpevoli, sostiene Manama, di aver compiuto un attacco bomba contro la polizia. Un’accusa rigettata con forza dagli attivisti secondo i quali la testimonianza di colpevolezza sarebbe stata estorta con la tortura. Alcuni dissidenti hanno sottolineato come l’interregno rappresentato dalla fine dell’amministrazione Usa di Obama e l’inizio di quella di Trump abbia fornito a re Hamad una ghiotta occasione per reprimere in modo indisturbato le voci dell’opposizione.
Che i legami tra Emirati e la monarchia di re Hamad siano molto forti è apparso evidente domenica quando l’assistente del ministero degli affari esteri emiratino, Abdul Rahim al-Awadhi, ha convocato l’ambasciatrice svizzera Maya Tissafi affinché questa denunciasse il suo Paese “colpevole” di aver criticato la scorsa settimana il Bahrain al Consiglio dei diritti umani dell’Onu (Unhrc) e “di aver ignorato”, invece, i progressi compiuti da Manama nel campo dei diritti umani. L’attacco di al-Awadhi a Berna ha fatto seguito a quello di sabato del Consiglio di Cooperazione del Golfo che in un comunicato aveva “fortemente” condannato il rapporto elvetico all’Unhr.
Sebbene per altri motivi, non se la passeranno meglio i lavoratori stranieri impiegati in Arabia saudita. Ieri il governo ha annunciato che aumenterà le pressioni sulle compagnie locali affinché queste assumano cittadini sauditi. La nuova politica messa in campo dai Saud si inserisce nel più ampio programma di riforme lanciate lo scorso anno per combattere il tasso di disoccupazione tra i sudditi e farlo scendere dall’attuale 12,1% al 9% entro il 2020. Con il nuovo provvedimento, escogitato nel 2011 e noto come Nitaqat, il ministro del Lavoro valuterà le aziende in base alla percentuale di sauditi impiegati come forza lavoro. Maggiore sarà il numero dei locali utilizzati, migliore sarà il trattamento di Riyadh nei loro confronti (in termini di licenze, agevolazioni, ottenimento di visti per stranieri). Le compagnie che avranno tra le loro file meno connazionali, al contrario, subiranno delle punizioni.
Se il provvedimento faciliterà l’inserimento dei disoccupati sauditi nel mercato lavorativo, dall’altro lato, sottolineano diversi commentatori, aumenterà i costi per le società che non potranno più disporre di manovalanza (straniera) a salari bassi. Ciò, secondo alcuni, potrebbe frenare lo sviluppo del settore pubblico e ostacolare la diversificazione dell’economia nazionale che si basa per lo più sul petrolio. Senza dimenticare poi che oltre 12 milioni di stranieri si ritroveranno nei fatti dall’oggi al domani senza lavoro. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir