Il Libano, dimenticato dalle cronache prima del 4 agosto, è ora al centro delle speculazioni. Ma poco si dice di chi subisce da anni la diseguaglianza endemica: i giovani, i migranti, i rifugiati
di Anna Maria Brancato
Roma, 8 settembre 2020, Nena News – Nell’era dei social network si possono dividere le persone in due gruppi principali: chi di fronte agli eventi che sconvolgono il mondo non prende respiro e senza riflettere azzarda tutte le ipotesi possibili, comprese quelle meno probabili creando un vortice di confusione attorno; e chi, sentendo il peso della complessità geopolitica, preferisce chiudersi nel silenzio, ascoltare più voci e cercare di capire.
Sul Libano, dopo quel 4 agosto che ha fermato il paese al momento dell’esplosione, fino a oggi è stato detto tanto e troppo. Il Libano non si trovava nella classifica degli argomenti più trattati sui quotidiani italiani e di certo non perché rappresentasse un esempio di stabilità politica o di equa distribuzione delle ricchezze. Semplicemente si è deliberatamente ignorato il tracollo di un Paese che, disperato ed esasperato da una dirigenza politica corrotta, ha iniziato a sollevare la voce tra l’ottobre e il dicembre 2019, proprio poco prima che il mondo intero si ritirasse in quarantena.
Da quando la crisi economica, politica e sociale si è fatta sempre più pressante, il Libano è stato al centro di una serie di proteste di massa, diventando uno di quei teatri a cui siamo ormai abituati. In scena abbiamo manifestanti, dittatori, politici corrotti, repressioni e così via. Ma la spontaneità delle proteste è stata ormai così violata che come prima cosa viene da chiedersi chi si sta sporcando le mani, come e perché.
E allora subito a vedere quali fasce della popolazione sono coinvolte nelle proteste, giovani, vecchi, medio bassa borghesia, contadini, operai? E ancora a cercare di carpire le dichiarazioni dei vari leader internazionali per intuire chi sta sostenendo quale parte, con quali motivazioni e in che modo questo supporto può influire sulle manifestazioni stesse ma, soprattutto, sulla creazione dell’opinione pubblica internazionale.
Anche nel tentare di analizzare la situazione libanese, questi interrogativi sono tornati prepotenti. Non bisogna tralasciare infatti la strategica posizione geografica (si pensi al confine meridionale con Israele) e politica (la sua alleanza con Siria e Iran). Destabilizzare (ulteriormente) un paese così piccolo ma con una posizione importante come il Libano avrebbe significato, in particolare per Washington e i suoi alleati – impegnati da anni a lavorare alla disgregazione del Vicino e Medio Oriente – dare una ulteriore spallata al governo Assad in Siria e continuare a piegare l’Iran, strizzando l’occhio a Israele.
I dubbi su presunte ingerenze, o tentativi di mettere le mani sul Paese dei Cedri, hanno iniziato a trovare conferme dal momento che le dichiarazioni di vari personaggi statunitensi non si sono fatte attendere: basta vedere l’opinione espressa a novembre 2019 da Jeffrey Feltman, sottosegretario del Dipartimento di Stato americano ed ex ambasciatore di Washington in Libano. Posizioni in linea con quelle dell’attuale ambasciatrice americana in Libano Dorothy Shea e con quelle del Generale Kennet F. McKenzie, che ha ribadito l’impegno americano a sostenere il Libano nel controbilanciare la forza delle milizie di Hezbollah.
Ciò nonostante, non è pensabile ignorare il malcontento e le pessime condizioni di vita in cui versavano e versano ancora i cittadini e i residenti in Libano. Anni di mala amministrazione, politiche clientelari, settarie e corrotte, una economia basata più su precari equilibri finanziari che su una vera e propria solida strategia produttiva, una società estremamente divisa e con all’interno forti diseguaglianze, hanno fatto sì che la rabbia esplodesse nel momento in cui per tante famiglie non c’era più nulla da portare in tavola. Non si potranno dimenticare facilmente le immagini apparse su alcune testate dei frigoriferi ormai completamente vuoti delle famiglie libanesi.
Ma questa crisi non interessa solo i cittadini libanesi. Dell’enorme numero di immigrati e rifugiati presenti nel Paese (palestinesi, siriani, etiopi, sudanesi, filippini) si parla sempre meno. Forse perché i palestinesi e i siriani hanno avuto un ruolo marginale in queste proteste prettamente libanesi? Abituati a sopravvivere nell’esclusione e nel dimenticatoio della vita politica libanese ma, soprattutto, ben consci di come la loro presenza in piazza potesse essere facilmente strumentalizzata dalle parti in causa, hanno preferito rimanere almeno momentaneamente al loro posto? Che non vuol dire che siano rimasti a guardare il Libano che capitolava: il giorno dell’esplosione i rifugiati dei campi hanno pianto esattamente come i libanesi nel vedere la città ferita e devastata e, prontamente, squadre di volontari palestinesi dai campi hanno dato il loro contributo nella ricerca dei dispersi.
La crisi economica però ha colpito anche un altro gruppo di immigrati: donne per la maggior parte provenienti da paesi africani e al servizio delle ricche famiglie borghesi libanesi che con il crollo della moneta non sono più riuscite a mantenerle e hanno preferito sbarazzarsene, esattamente come si fa con i mobili vecchi, le hanno lasciate in mezzo alla strada. Senza alcuna protezione, né da parte dello Stato libanese, né tantomeno delle loro ambasciate. La situazione di queste donne è estremamente delicata perché legata a un sistema di “sponsorizzazione” e di garanzie che le lega indissolubilmente al proprio datore di lavoro, trasformandole in una sua proprietà. Loro, le domestiche, vivevano all’interno delle case in cui lavoravano, dove spesso subivano violenze e sorprusi di ogni genere, non essendo considerate né protette dalla legislazione libanese.
In questo contesto, la pandemia è andata a sommarsi e ad aggravare la crisi già in atto, letteralmente esplosa quel 4 agosto nel porto di Beirut. Subito le prime ipotesi: Israele ha colpito il Libano perché voleva colpire Hezbollah, con tanto di video di droni e di oggetti volanti che parevano essere stati sganciati sul porto. Poi di corsa a smentire e a dare la colpa al malgoverno e a quella abitudine un po’ “mediterranea” a lasciare le cose così come sono, incustodite e senza troppi sforzi per evitare le tragedie. Abitudine che conosciamo bene in Sardegna e in Italia.
Ancora non sappiamo e non sapremo mai se e chi ha commissionato la distruzione del porto di Beirut, ma ciò che è certo è che quella era l’infrastruttura fondamentale anche per la vicina Siria, già sotto embargo e messa ulteriormente in ginocchio proprio in quei giorni dal Cesar Act fortemente voluto dagli Usa
Subito dopo l’esplosione, dal governo israeliano si sono affrettati a offrire aiuti per la ricostruzione, quasi come non si vedesse l’ora di mettere le mani sul Libano, distruggendolo per poi riplasmarlo. Qualcuno ha definito questo atteggiamento con il termine “bluewashing”. Sì, blu come la bandiera delle Nazioni Unite…
Ciò che però doveva far riflettere gli osservatori attenti era il fatto che addossare subito le colpe a Israele, senza aver ancora chiaro cosa stesse succedendo, avrebbe potuto rappresentare un ulteriore pericolo per la stabilità di un Paese già in bilico. Hezbollah è sicuramente un partito influente nell’area e temuto in America e ancor di più in Israele. Un partito che, con le proprie falle e le proprie contraddizioni, ha rappresentato un punto fermo per la politica estera del Paese, soprattutto in funzione antimperialista in tutta l’area. A livello interno, ha garantito una certa rete di solidarietà a tante persone, non ultimi i rifugiati. Nonostante questo, il popolo libanese ha dimostrato di essere stanco del sistema settario e clientelare vigente nel paese; stesso sistema di cui Hezbollah fa parte.
Ma accusare Israele di aver colpito il Libano, significa implicitamente accusare Hezbollah di aver “provocato” Israele, anche solo semplicemente con la sua presenza. La prospettiva che ne è derivata, almeno a livello mediatico, è stata una prospettiva rovesciata: a destabilizzare il Medio Oriente non è più la presenza sionista, della quale si conoscono bene i precedenti in territorio libanese, ma è la presenza di partiti legittimi “endemici” che diventano un motivo di insicurezza per Israele, il quale come suo solito decide di attaccare preventivamente per difendersi. Questa era la logica implicita di una versione dei fatti che indicava Hezbollah come obiettivo del presunto attacco israeliano al porto di Beirut.
Intanto, gli studenti di scienze politiche dovranno rimettere ancora una volta in gioco le proprie certezze e interrogarsi sul reale significato dei concetti di colonizzazione e ancor più di decolonizzazione proprio perché, a complicare il quadro e probabilmente fiutando la possibilità di immergere le mani tra influenze politiche, prestiti e ricostruzioni nel Paese dei Cedri, la vecchia potenza coloniale francese non ha perso tempo a esercitare pressioni. Pressioni che in parte cozzano con gli interessi Usa già esplicitati; ma la Francia sicuramente non intende desistere, proprio in virtù di quello che fu il suo ruolo nella creazione del Libano settario.
E se non ci fossero le immagini a testimoniarlo verrebbe ancora più difficile immaginare come, in un momento così delicato per la storia del Paese, proprio chi ha dedicato “a Beirut” dei versi cantati “dal cuore”, in questi giorni possa essersi resa, almeno agli occhi di un osservatore esterno, strumento di questa propaganda neocoloniale. Ma questa è un’altra storia.