Durante un recente seminario all’Università di Exter (Gran Bretagna), un professore ha cercato di dimostrare la continuità storica della presenza ebraica in Palestina attraverso alcune scoperte archeologiche. L’obiettivo era chiaro: sostenere che l’ideologia fondante lo stato ebraico non è sinonimo di colonialismo
di Anna Maria Brancato
Roma, 8 novembre 2016, Nena News – Per quanto da sempre ci si sia sforzati di reclamare e di invocare l’obiettività della ricerca storica, bisogna ammettere che sposare un filone narrativo piuttosto che un altro equivale spesso a fare una precisa scelta di campo e la ricerca storica applicata alla questione palestinese ne è l’esempio più concreto. La polarizzazione del dibattito storico tra israeliani e palestinesi viene erroneamente fatta risalire all’apparizione di quella nuova corrente storiografica, chiamata appunto ‘Nuova Storiografia’, nata grazie allo studio e al lavoro di storici israeliani basato sull’analisi di alcuni documenti declassificati negli archivi israeliani e inglesi.
Nel periodo del mandato britannico circolavano già alcuni articoli in lingua araba che ammonivano sui pericoli dell’immigrazione sionista e sui presupposti ideologici di tale immigrazione. Subito dopo il ’48, alcuni storici palestinesi avevano immediatamente cercato di fare luce sulle conseguenze della guerra. Ancor meglio hanno fatto gli storici e intellettuali della diaspora palestinese, che intorno agli anni ‘60/’70 hanno riflettuto e scritto sulle conseguenze e sulle modalità di nascita dello stato ebraico, basti pensare a Walid Khalidi che per primo analizzò e tradusse il cosiddetto ‘Piano D’ o ‘Plan Dalet’, in base al quale venne pianificata quella che poi lo storico Ilan Pappé ha definito la ‘pulizia etnica della Palestina’.
La novità apportata negli anni ’80 dalla Nuova Storiografia, dunque, non è stata relativa alla conoscenza di fatti ignorati prima e riguardanti le politiche di distruzione e espulsione premeditate dai fautori dello stato ebraico. I meriti della Nuova Storiografia vanno ricercati per prima cosa nella sua (ri)definizione di ciò che da quel momento è stata ribattezzata ‘Vecchia Storiografia’ (‘Old Historiography’, definizione di Benny Morris), ma soprattutto nell’aver dato una connotazione, per così dire, ‘pubblica’ e aperta a un dibattito latente all’interno del quale la voce palestinese veniva fatta tacere e ignorata.
Quando due narrazioni entrano in conflitto e una risulta, per questioni politiche e di potere, dominante è molto più facile che la versione più debole raggiunga la ribalta solo dopo che un gruppo di ‘revisionisti’ o ‘dissidenti’ interno alla corrente dominante emerge a sostegno della versione opposta. Questa dinamica è stata particolarmente evidente all’interno del dibattito storico sulla questione israelo-palestinese.
Nonostante, però, la Vecchia Storiografia, o storiografia ufficiale israeliana, sia stata sfidata dal suo interno, continua a essere dominante ancora oggi e il dibattito sul ’48 non può (e non deve) dirsi concluso, anche alla luce degli ultimi scritti di Benny Morris e lo scambio di battute con Daniel Blatman avvenuto proprio nei giorni scorsi, sulle pagine del quotidiano Haaretz.
Non è e non può dirsi concluso anche perché la versione ufficiale israeliana è quella ritenuta valida da gran parte della comunità accademica ‘occidentale’, nonostante una delle accuse mosse dalla Nuova Storiografia alla Vecchia riguardasse proprio questioni metodologiche. I lavori dei ‘vecchi’ storici risultavano, infatti, essere basati su racconti personali, testimonianze ed erano commissionati e controllati direttamente da vertici del governo o dell’esercito. Questo avrebbe prodotto una mancanza di obiettività e di libertà di ricerca accademica che, invece, i Nuovi Storici si proponevano di recuperare.
C’è da dire che col tempo il metodo scientifico è invece diventato il punto forte della storiografia filo-sionista, tanto da poter sembrare a prima vista tutto fuorché una narrazione lacunosa o ‘di parte’. Prendo come esempio un episodio a cui ho assistito di persona. Durante un seminario dal titolo “The Jews and Their Land: the Historical Basis for Zionism” tenutosi lo scorso due novembre presso l’Università di Exeter in Gran Bretagna, un professore associato di ‘Early Jewish Studies’ del Dipartimento di Teologia e Religione ha cercato di dimostrare la continuità storica della presenza ebraica in terra di Palestina attraverso l’analisi di alcune scoperte archeologiche, cosa peraltro già ampiamente dimostrata e accertata e che in nessun caso può e vuole essere messa in discussione.
Partendo, dunque, dal presupposto che difficilmente la presenza ebraica in Palestina possa essere negata, come invece emerso in vari punti del discorso del professore, l’accostamento tra ‘ebraicità’ e sionismo così forzato può risultare strumentale a chi non tollera critiche alla politica israeliana e accusa di antisemitismo i detrattori di Israele. Scavando, senza continuità temporale, dentro millenni prima di Cristo, alla ricerca di una qualsiasi segno grafico o reperto che possa testimoniare in qualche modo la reale esistenza dell’antico regno ebraico, il professore intende riallacciare un passato a dir poco remoto all’esistenza e alle politiche di uno stato, oggi quasi completamente riconosciuto e integrato all’interno della comunità internazionale.
Se, dopo la riesumazione delle tracce archeologiche della presenza ebraica (ebraica, non sionista) uno nutrisse ancora qualche dubbio su quali possano essere a quel punto le basi storiche dell’ideologia sionista (sionista, non ebraica), il professore, avviandosi alla conclusione della sua presentazione, afferma che alla luce di tutto ciò il sionismo non è sinonimo di colonialismo, semplicemente perché gli ebrei hanno abitato la Palestina da sempre.
Alla luce di quelli che sono i nuovi sviluppi del dibattito storiografico, puntualizzare alcuni punti della presentazione del professore è d’obbligo. Intanto una chiarificazione dei termini sarebbe subito necessaria. Confondere o scambiare ebraismo con sionismo è cosa da cui storici, intellettuali e semplici sostenitori della causa palestinese dotati di buon senso e consapevolezza storica, stanno ben lontani. Il sionismo, infatti, non può cercare le sue basi storiche appoggiandosi alla presenza ebraica in Palestina millenni prima di Cristo, in quanto rappresenta prima di tutto un movimento nazionalista di chiara origine europea.
Chiarito questo primo punto, risulta più facile individuare nel sionismo una forma di colonialismo altrimenti definito ‘settler colonialism’. I settler colonial studies si propongono di studiare quella forma di colonialismo che mira alla totale eliminazione della popolazione nativa al fine di acquisire sempre maggiore controllo su una determinata porzione di terra e, tramite dinamiche e strutture relazionali e di propaganda (che includono anche l’egemonia di una certa narrazione storica a discapito di un’altra) arriva a trasformare i ‘settlers’ in nativi.
Ancora, quello che si vuole mettere in discussione non è di certo la presenza di una comunità ebraica in Palestina nel corso dei secoli, quanto piuttosto il diritto del sionismo di fare di Israele uno stato a base etnica, solo per ebrei. Questo, però, il professore non l’ha detto esplicitamente: è stato cauto e scientificamente impeccabile nel non affermarlo. Personalmente, credo che tentare di dimostrare quali siano le basi storiche del sionismo (rimando al titolo del seminario) significhi per esteso andare a cercare le fondamenta di uno stato d’apartheid che dal 1948 impedisce il ritorno dei profughi palestinesi (i nativi), incentivando il trasferimento in Israele di qualsiasi ebreo da qualsiasi parte del mondo; uno stato che controlla le identità e i movimenti dei palestinesi residenti in Israele e nei T.O. tramite un complesso sistema di checkpoint e documenti; uno stato che, nonostante gli appelli dell’ONU, continua a costruire colonie e avamposti illegali, che demolisce le abitazioni nei villaggi palestinesi e raramente concede permessi per ricostruire.
Che poi il sionismo, come ideologia che è stata e sta alla base delle politiche dell’establishment israeliano, sia riuscito nel suo tentativo di sostituzione etnica in Palestina è una questione irrisolta che si presta ad ulteriori valutazioni e approfondimenti. Come del resto irrisolta rimane la questione posta come titolo del seminario (la ricerca delle basi storiche del sionismo) e che volutamente, e in maniera molto sleale, cerca di confondere e di fondere ritrovamenti archeologici, prove bibliche e strumenti scientifici con le politiche di un movimento nazionalista che, in modo anacronistico, vaga alla ricerca delle sue origini. Nena News
L’idea di un “focolare ebraico” si può far risalire a Cromwell. Sviluppatasi in ambito anglosassone ha avuto la sua teorizzazione in ambito europeo. Il sionismo come tutte le ideologie colonialiste necessita di una giustificazione ideologica. I coloni europe nel nuovo mondo hanno fatto riferimento alla dottrina del”destino manifesto” che assegnava per volontà di Dio il Continente americano agli invasori cosicchè i nativi risultavano abusivi, illegali (come i Palestinesi in Palestina).
Rintracciare tracce di presenza palestinese vorrebbe dunque significare che gli ebrei hanno abitato la Palestina anche nei tempi prima di Cristo e che ciò giustificherebbe che l’attuale occupazione non è accaparramento di terre altrui ma semplice presa di possesso della propria terra. Come dice Anna Maria Brancato , alla luce di tutto questo il sionismo non sarebbe colonialismo…
L’articolo è scritto con perizia e ha l’enorme merito di aver affrontato il problema introducendosi nelle metodologie storiografiche, sforzo dovuto se si vuole raggiungere un’egemonia culturale sulla questione palestinese
L’idea di un “focolare ebraico” si può far risalire a Cromwell. Sviluppatasi in ambito anglosassone ha avuto la sua teorizzazione in ambito europeo. Il sionismo come tutte le ideologie colonialiste necessita di una giustificazione ideologica. I coloni europe nel nuovo mondo hanno fatto riferimento alla dottrina del”destino manifesto” che assegnava per volontà di Dio il Continente americano agli invasori cosicchè i nativi risultavano abusivi, illegali (come i Palestinesi in Palestina).
Rintracciare tracce di presenza palestinese vorrebbe dunque significare che gli ebrei hanno abitato la Palestina anche nei tempi prima di Cristo e ciò giustificherebbe che l’attuale occupazione non è accaparramento di terre altrui ma semplice presa di possesso della propria terra. Come dice Anna Maria Brancato , alla luce di tutto questo il sionismo non sarebbe colonialismo.
L’articolo è scritto con perizia e ha l’enorme merito di aver affrontato il problema introducendosi nelle metodologie storiografiche, sforzo dovuto se si vuole raggiungere un’egemonia culturale sulla questione palestinese