Nel tentativo di impedire lo svolgimento dell’iniziativa romana sta l’attuale stato della politica italiana. Su molte questioni è ormai difficile distinguere le forze cosiddette progressiste da quelle populiste: la Palestina rappresenta un esempio calzante
di Ramzy Baroud e Romana Rubeo
Roma, 12 ottobre 2020, Nena News – La caccia alle streghe di stampo sionista scatenata contro un festival della cultura palestinese tenutosi a Roma dal 1 al 4 ottobre ha esposto tutta la fragilità del sistema politico italiano sul tema israelo-palestinese. La triste verità è che, sebbene l’Italia non sia comunemente associata a una lobby ‘potente’ come quella di Washington, l’influenza filoisraeliana è altrettanto pericolosa.
L’ultimo episodio in tal senso si è verificato a partire dal 24 settembre, quando la Comunità palestinese di Roma ha diramato un comunicato stampa in cui si annunciava l’apertura di Falastin – Festival della Palestina, un evento culturale con l’obiettivo di mostrare la ricchezza della cultura palestinese in tutto il suo splendore. L’idea di fondo non era solo umanizzare i palestinesi agli occhi degli italiani, ma anche esplorare i punti in comune, e instaurare legami duraturi. Per gli alleati di Israele in Italia, però, neanche questi innocui presupposti sono accettabili.
Il festival, che aveva ottenuto il patrocinio del II Municipio di Roma, si è trovato al centro di una polemica aspra quanto paradossale. Il 25 settembre appare un bizzarro post a favore di Israele sulla pagina Facebook del Partito Democratico II Municipio di Roma. Senza alcun contesto o senza che vi sia un’occasione particolare, il post, corredato dalla foto di una bandiera israeliana, voleva celebrare l’amicizia tra Partito Democratico e Stato di Israele, esprimendo anche una condanna al movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La casualità del post e la strana tempistica lasciano pensare che il Partito Democratico fosse già sotto attacco per il patrocinio concesso al festival palestinese. In seguito a una notevole mole di commenti infuriati, la pagina del partito ha rimosso il post senza ulteriori spiegazioni.
Ma qualche giorno dopo, tutto è stato chiaro: il 30 settembre, la Comunità Ebraica di Roma ha diramato un comunicato esprimendo indignazione per il patrocinio, da parte del II Municipio, di quello che viene definito ‘un festival antisemita’. Approfittando della strumentale confusione tra antisemitismo e critiche legittime contro uno Stato di apartheid, i rappresentanti della Comunità si scagliavano contro il presunto boicottaggio delle attività ebraiche.
“Il patrocinio di un’iniziativa – si legge nel comunicato – che vede la presenza del movimento di boicottaggio di Israele (BDS) è inaccettabile e pericoloso. Il movimento di boicottaggio, nega allo Stato Ebraico il diritto ad esistere ed è legato ai movimenti terroristici di Hamas e Al Fatah.”
Oltre a queste accuse prive di fondamento, anzi, per la precisione, completamente fallaci, il comunicato faceva riferimento alla ‘Definizione di antisemitismo dell’IHRA’, che verrà illustrata in seguito, adottata dal governo italiano, e dai parlamenti francese e austriaco. Sulla base di questa logica, concludeva il comunicato, il movimento BDS “è antisemita”; inoltre, “con questa scelta, il Municipio sta legittimando l’odio antiebraico”.
Con un’azione chiaramente coordinata, anche il Centro Wiesenthal, che spesso si pone come istituto progressista, va all’attacco. Nella stessa giornata in cui la Comunità Ebraica di Roma dirama il comunicato, il Centro pubblica una lettera rivolta al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, reiterando le false accuse di antisemitismo contro il BDS, la definizione dell’IHRA e così via. Il Centro arriva al punto di paragonare il movimento BDS al programma del partito nazista tedesco. Si sostiene, infatti, che il BDS sia ispirato al “Kaufen nicht bei Juden” (Non comprate dagli Ebrei) degli anni ‘30.
Le conseguenze non sono tardate ad arrivare, soprattutto considerando la pavidità dei politici europei. Un assessore del II Municipio, tale Lucrezia Colmayer, ha presentato le dimissioni, “prendendo le distanze” dalla decisione della presidente Francesca del Bello di patrocinare il festival. “Con questo gesto voglio rinnovare la mia vicinanza alla Comunità ebraica di Roma, con cui abbiamo condiviso un importante percorso culturale e amministrativo,” scrive la Colmayer.
Del Bello segue a ruota con una sua dichiarazione. “Mi dispiace molto che il patrocinio del II Municipio al Falastin – Festival della Palestina, che si sta tenendo a piazzale del Verano abbia offeso la comunità ebraica e abbia indotto l’assessora alla cultura della mia giunta a dimettersi”, scrive, respingendo le dimissioni di Colmayer e invitandola a tornare presto al lavoro.
Fortunatamente, nonostante tutti gli ostacoli, “il Festival è stato un grande successo”, ci dice Maya Issa, membro della Comunità Palestinese di Roma e del Lazio. Il Festival “ha fatto vedere la Palestina con occhi diversi. L’atmosfera che si è creata è meravigliosa, sembrava di stare tra i colori, i profumi e i sapori della Palestina; c’erano cibo tradizionale palestinese, spettacoli teatrali e musicali, balli – la Dabkah – arte e letteratura”. La buona notizia è che, nonostante la campagna di stampo sionista, il Festival Palestinese è andato avanti e, sempre secondo Issa, “ha coinvolto molto politici che hanno scelto di partecipare”.
Ora che il Festival si è chiuso, i gruppi filo palestinesi in Italia hanno intenzione di controbattere alle accuse e al linguaggio diffamatorio dello schieramento filo israeliano. “Risponderemo con la verità e smonteremo tutte le menzogne che sono state dette, in particolare quelle sul BDS”, ha continuato Issa, aggiungendo, che “dobbiamo resistere, tutti noi della comunità palestinese e tutti coloro che appoggiano la vera democrazia, la libertà e il libero pensiero”.
Non v’è dubbio che la comunità palestinese italiana sia all’altezza del compito. Tuttavia, due precisazioni sono d’uopo. Prima di tutto, “la definizione di antisemitismo dell’IHRA” (anche detta EUMC) è stata deliberatamente strumentalizzata dai sionisti, al punto che un tentativo genuino di contrastare l’odio antiebraico è stato trasformato in uno strumento per difendere i crimini di guerra israeliani in Palestina e per mettere a tacere le voci critiche, non solo quelle che osano denunciare le violazioni israeliane, ma persino quelle che intendono celebrare la cultura palestinese.
Vale la pena sottolineare che lo stesso autore di quella ‘definizione’, l’avvocato statunitense Kenneth S. Stern, ha condannato il cattivo uso della stessa. In una memoria scritta, sottoposta al congresso americano nel 2017, Stern sostiene che la definizione originaria sia stata largamente strumentalizzata, e che non era intesa per essere trasformata in uno strumento politico.
“La ‘definizione di lavoro’ EUMC è stata di recente adottata nel Regno Unito e applicata nei campus. Una ‘Israel Apartheid Week’ è stata cancellata perché violerebbe la definizione. A un sopravvissuto dell’Olocausto è stato chiesto di cambiare il titolo di una conferenza e l’Università (di Manchester) ha richiesto che venisse registrata dopo che un diplomatico israeliano aveva sostenuto che violasse la definizione,” scrive Stern.
“Ancora più eclatante – continua – è il fatto che un gruppo esterno all’università abbia chiesto all’istituto di condurre un’indagine su una docente (con dottorato di ricerca alla Columbia) accusata di antisemitismo, sulla base di un articolo scritto anni prima. L’Università (di Bristol) ha effettivamente condotto l’indagine. Sebbene non siano stati trovati elementi per sanzionare la docente, questi fatti sono inquietanti nel loro maccartismo.”
Il secondo punto da considerare è lo stato della politica italiana. Su molte questioni, è ormai difficile distinguere le forze cosiddette progressiste da quelle populiste. Nel nuovo quadro politico italiano, e soprattutto all’interno del Partito Democratico, la Palestina rappresenta un esempio calzante. E questo è particolarmente significativo, considerando che il Partito Democratico nasce dalla fusione di forze della Prima Repubblica, ben note per le loro posizioni in favore dei diritti e dell’autodeterminazione dei palestinesi, nonché per la loro ferma opposizione alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
Oggi la situazione è radicalmente cambiata e al massimo la posizione sulla Palestina può essere riassunta nel logoro cliché dei “due popoli, due Stati”. Questa nuova fase nella politica italiana consente a esponenti come Lia Quartapelle – parlamentare del Partito Democratico – di ergersi a paladina dei diritti umani su scala globale per poi riferirsi a Israele come a “un’eccezione straordinaria: una democrazia plurale in una regione che ha alimentato settarismi e fondamentalismi”. Le sue affermazioni, oltre a essere erronee e mendaci, sottendono anche un certo sentimento anti-arabo, che qualcuno potrebbe persino definire razzista.
Il tentativo di impedire lo svolgimento del Festival è solo uno spaccato della politica estera italiana in merito a Palestina e Israele, che offre ai palestinesi vuota retorica, mentre si sottomette all’agenda razzista ed estremista di Tel Aviv. Gli italiani devono capire che questo dibattito non riguarda solo Palestina e Israele ma anche la loro stessa democrazia. L’Italia è il Paese che ha visto nascere il fascismo, ma che poi lo ha combattuto e sconfitto; il Paese che si è alleato con i nazisti, ma che poi li ha combattuti e sconfitti. Ancora una volta, si è di fronte a una scelta che non lascia alternative: schierarsi al fianco del razzismo e dell apartheid di Israele o sostenere la lotta per la libertà del popolo palestinese.
Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattore del Palestine Chronicle. I suoi articoli sono stati pubblicati da numerose testate online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e di contenuti audiovisivi.
Ramzy Baroud è giornalista e direttore del Palestine Chronicle. È autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” (Clarity Press). Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA) e l’ìAfro-Middle East Center (AMEC). Il suo sito intenet è www.ramzybaroud.net
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