Nel suo viaggio Bergoglio ha denunciato l’uso della guerra come strumento di sopraffazione, come drammaticamente dimostra la situazione irachena. Ma c’è una luce: i movimenti di protesta capaci di svelare l’originaria malformazione dell’assetto politico nato dall’occupazione statunitense, spiega il sociologo iracheno Adel Jabbar
di Adel Jabbar
Roma, 15 marzo 2021, Nena News – La decisione del Papa di compiere una visita in terra mesopotamica richiede un’analisi attenta vista la complessità delle dinamiche geopolitiche del Vicino e Medio Oriente.
Il Pontefice si è recato in un’area che è teatro di scontro geopolitico, in cui sono presenti eserciti di potenze straniere invisi alle popolazioni locali, in cui il terrorismo di matrice transnazionale è all’ordine del giorno, i duri scontri tra diverse fazioni sono spesso sostenuti da attori internazionali grandi, medi, piccoli e piccolissimi. Nonostante tutto ciò il capo dello Stato vaticano ha compiuto questa visita importante.
Dopo l’euforia mediatica e dopo che sono state dette molte cose e sono stati fatti molti commenti riguardo al viaggio del Sommo Pontefice, vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto relativo ai pronunciamenti del Papa durante le diverse tappe del suo viaggio. Esso è di natura politica e riguarda la critica alla pratica della guerra, in quanto causa principale delle gravi condizioni in cui vivono molte delle popolazioni del mondo. Il Papa ha più volte sottolineato come la guerra sia un atto di sopraffazione.
Ciò trova una dimostrazione chiara e drammatica in Iraq. Un paese strategico ricco non solo di materie prime bensì anche di risorse umane e di un immenso patrimonio storico culturale che ha subito due guerre scatenate in base a delle eclatanti e ignobili bugie quali la storia dei neonati nelle incubatrici gettati a terra dai soldati iracheni in Kuwait nel 1991. Episodio raccontato da una presunta infermiera, rivelatasi successivamente la figlia quindicenne dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, addestrata da un’agenzia americana di pubbliche relazioni.
Anche per la guerra del 2003 si è fatto di nuovo ricorso a una menzogna, ovvero la storia delle armi di sterminio di massa, riportato con tanto di provetta tenuta in mano dall’allora segretario di stato Colin Powell. Queste sì che possono essere definite la madre delle fake-news. Tali bugie sono ormai ammesse perfino da diversi esponenti delle Nazioni Unite coinvolti nei fatti dell’epoca quali Denis Halliday, coordinatore degli aiuti umanitari Onu e Hans von Sponeck, coordinatore del piano sanitario Onu in Iraq.
Il risultato di tale disinformazione è stato da un lato l’appoggio di alcuni settori dell’opinione pubblica mondiale all’intervento militare e dall’altra la popolazione irachena terrorizzata e brutalmente devastata. I responsabili di questi crimini di guerra, non solo rimangono fino ad oggi impuniti, bensì continuano a diffondere le loro menzogne e i loro successori proseguono perpetuando le medesime azioni distruttrici in altri contesti.
Le dichiarazioni del Papa in Iraq sono richiami a coloro che fabbricano e vendono armi ed elaborano piani di guerra, mettendoli di fronte alle fatali conseguenze del loro agire che semina morte, macerie, profughi, rancore, disperazione, frantumazione sociale e instabilità politica.
Dal 2003, anno dell’invasione militare dell’Iraq da parte dell’alleanza anglo-americana, il paese ha subito numerose fratture e frammentazioni. In esso regna ormai un disordine generale, la corruzione è pratica sistematica e varie milizie con diverse denominazioni spadroneggiano sull’intero territorio. Queste sono solo alcune delle conseguenze drammatiche dell’invasione di quest’antica terra da parte degli Usa e del Regno Unito, terra già compromessa da anni di governo dispotico del clan di Saddam Hussein, seguito dal conflitto militare con l’Iran (1980-1988), successivamente dalla prima guerra del Golfo scoppiata a seguito dell’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno nel 1991 e in fine da numerosi anni di embargo (1990-2003) da parte degli Usa, un embargo fatale che è costato la vita a più di un milione di iracheni, per finire con l’occupazione del paese dal 2003 e l’instaurazione di un assetto politico volutamente instabile.
Larghe fasce della popolazione di questo paese estenuata, martoriata ed esasperata, ha deciso infine di rendersi protagonista nello spazio pubblico a partire dal 2011 facendo nascere importanti movimenti di protesta contro lo status quo, rivendicando i diritti fondamentali per la propria gente, diritti fino ad ora negati da parte dei diversi potentati clanistico-familistico-confessonali.
Dal ottobre del 2019 le coraggiose proteste pacifiche di questi movimenti si sono ulteriormente intensificate, malgrado la feroce repressione da parte degli apparati di “sicurezza” e delle varie milizie.
Continuano a denunciare instancabilmente la corruzione e l’assenza dello Stato, in quanto garante dell’ordine pubblico e dei diritti fondamentali per i suoi cittadini. I giovani manifestanti, in gran parte appartenenti alla popolazione di confessione sciita, rivolgono forti critiche ai gestori dell’affare pubblico, anche essi prevalentemente sciiti, evidenziando l’originaria malformazione dell’assetto politico nato dall’occupazione statunitense e basato su una visione confessionalizzante e etnicizzante in cui il potere viene esercitato da satrapi locali e dinastie familiari camuffate in abiti talari, “turbanti religiosi” e “turbanti tribali”.
Il potere di fatto è gestito da combriccole che si sono spartite il paese e le sue ricchezze creando feudi personali. Il fattore principale, responsabile per questa situazione disastrosa è, secondo molti analisti e osservatori dell’area, la stessa “costituzione” del 2005, basata su una logica di spartizione del potere lungo linee confessionali e etniche.
Questo quadro non è più né tollerabile né sostenibile, pertanto la pratica politica necessita una revisione radicale al fine di cambiare l’assetto istituzionale tenendo presente l’importanza della partecipazione di tutte le forze sociali e politiche che da tempo rivendicano la riforma delle istituzioni e pretendono una nuova carta costituzionale che metta al centro la concezione dei diritti di cittadinanza e delle pari opportunità tra tutti gli iracheni, donne e uomini, senza distinzione alcuna.
Infine per comprendere gli effetti della vista di Papa Francesco sull’aggrovigliata e spinosa situazione del paese dei due fiumi sarà necessario continuare ad osservare l’evoluzione politica e le mosse dei molteplici attori sia interni che esterni. Nena News