È necessario un nuovo approccio critico, interdisciplinare e decoloniale per comprendere le ragioni del de-sviluppo palestinese, come parte di un più ampio processo di espropriazione, sfruttamento e neoliberismo. Un approccio che sveli i danni provocati dagli aiuti internazionali pompati in un’economia senza libertà

La città di Rawabi, progetto finanziato dal Qatar e realizzato con il sostegno di imprese israeliane (Fonte: Creative Commons)
di Alaa Tartir – Ppe
Roma, 4 agosto 2021, Nena News – L’economia politica si occupa di istituzioni, relazioni di potere, conflitto sociale e lotta. Un compito chiave dell’economia politica è quello di storicizzare e (ri)politicizzare l’economia, visto che politica ed economia sono profondamente interconnesse e risiedono in (ed emergono da) determinati luoghi sociali, spaziali e storici.
L’economia politica, dunque, punta a denaturalizzare il capitalismo al fine di ottenere una più robusta analisi del colonialismo d’insediamento, del capitalismo razziale e del neoliberismo.
Nel caso della Palestina occupata, un approccio di economia politica ha senso quando analizza la situazione attuale, mentre svela gli elementi critici dell’espressione di potere sia materiale che narrativa (visibile e invisibile). Inoltre mette in rilievo che un approccio economico che non considera la politica – dunque un’economia depoliticizzata – è inadeguato a comprendere la situazione nella Palestina occupata.
Nel mio ultimo libro, “Political Economy of Palestine: Critical, Interdisciplinary and Decolonial Perspectives”, scritto con Tariq Dana e Timothy Seidel, pubblicato nel maggio 2021 da Palgrave Macmillan e composto di 14 capitoli, offriamo un’approfondita contestualizzazione dell’economica politica palestinese, analizziamo l’economia politica dell’integrazione, la frammentazione e la diseguaglianza ed esploriamo e problematizziamo i vari settori e temi dell’economia politica in assenza di sovranità.
Uno degli aspetti chiave che emerge dal libro e dallo sforzo intellettuale collettivo è relativo all’estremo bisogno di studiare l’economia politica della Palestina attraverso prospettive critiche, interdisciplinari e decoloniali. Affermiamo che utilizzare tali prospettive accende una luce sui temi della resistenza e degli aiuti nella comprensione delle forme di soggettività politica, specialmente nei contesti neoliberali e di colonialismo di insediamento.
Tale approccio fornisce una struttura più robusta per comprende le complesse dinamiche del processo di sviluppo e illustra perché, come e da chi lo sviluppo in Palestina è negato. Lasciatemi spiegare cosa intendiamo per prospettive critiche, interdisciplinari e decoloniali.
Un approccio critico all’economia politica sfida le logiche e le strutture neoliberali prevalenti che riproducono il capitalismo razziale ed esplora come l’economia politica della Palestina occupata sia determinata da processi di accumulazione attraverso lo sfruttamento e lo spossessamento sia da parte di Israele e del business globale che da parte dell’élite palestinese.
Un approccio interdisciplinare aiuta a svelare le dinamiche sottese e complesse che non possono essere semplicemente individuate da una singola disciplina. L’economia politica come metodo critico interdisciplinare ha assunto un grande significato epistemiologico, teoretico, empirico e analitico per decifrare le relazioni intrecciate tra colonialismo, sfruttamento, nazionalismo e patriarcato all’interno delle dinamiche e le traiettorie del capitalismo.
Un approccio decoloniale evidenza le lotte contro le politiche e le istituzioni neoliberali e di colonialismo di insediamento e aiuta nella deframmentazione della vita, la terra e l’economia politica palestinesi la cui storia di de-sviluppo in tutto il paese va indietro di oltre un secolo. Questo approccio inoltre sottolinea la necessità di studi che dimostrino un impegno epistemico e politico alla decolonizzazione.
Quanto un simile approccio impatta sul processo di sviluppo in Palestina, in particolare in relazione a tutti gli aiuti internazionali pompati nella sua economia, oltre 40 miliardi di dollari dal 1993 che però hanno miseramente deluso il popolo palestinese?
È evidente oggi che il flusso di aiuti, non importa quanto ampio, non sarà mai efficace se continuerà ad essere immesso in un contesto economico e politico alterato. Di fatti, maggiore denaro può condurre a maggiore danno quando è speso in interventi impropri. Allo stesso modo, le soluzioni solo tecniche, non per quanto buone possano apparire sulla carta, non riusciranno mai ad affrontare i veri problemi dei palestinesi se evitano la realtà politica del cosiddetto conflitto israelo-palestinese.
È dunque inevitabile, in linea con l’approccio proposto nel nostro libro, che si dovrebbe realizzare un cambiamento nel pensiero prevalente allo sviluppo, da uno che considera lo sviluppo come un approccio tecnocratico, apolitico e neutrale a uno che riconosce le strutture di potere e relazioni di dominio coloniale, alcune delle quali ri-articolano i processi di sviluppo come legati alle lotte per i diritti, la resistenza e l’emancipazione.
Eppure, se tale cambiamento si è realizzato a un livello intellettuale, non si è ancora tradotto in una trasformazione nelle politiche della comunità dei donatori internazionali e nemmeno in quelle delle autorità nei Territori palestinesi occupati che ricevono gli aiuti. È ormai tempo di adottare un approccio di economia politica che sostituisca dannosi percorsi già battuti.