Ai giornalisti palestinesi spetta il compito di demolire anni e anni di disinformazione e ricostruire una propria, lucida narrazione, che sia scevra dai capricci delle diverse fazioni e dai tornaconti personali di ciascuno
di Ramzy Baroud
(traduzione di Romana Rubeo)
Roma, 26 maggio 2016, Nena News – Conoscere personalmente centinaia di giornalisti e professionisti della comunicazione palestinesi, provenienti da ogni parte del mondo, è stata un’esperienza incredibile. Per molti anni, i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra le diverse fazioni, nel tentativo disperato di respingere gli attacchi della campagna informativa israeliana, delle sue falsificazioni e della continua propaganda della “hasbara.”
È presto per parlare di un cambiamento significativo del paradigma comunicativo, ma la seconda Conferenza Tawasol, che si è tenuta a Istanbul il 18 e il 19 maggio, ha fornito l’occasione di analizzare il panorama mediatico in continua evoluzione e di porre alla luce le opportunità e le ardue sfide che i Palestinesi si trovano ad affrontare.
A loro, non spetta solo il compito di demolire anni e anni di disinformazione israeliana, spacciata per verità storica e propinata al mondo come oggettiva, ma anche quello di ricostruire una propria, lucida narrazione, che sia scevra dai capricci delle diverse fazioni e dai tornaconti personali di ciascuno. Ovviamente, non sarà facile.
Il messaggio che ho voluto portare alla Conferenza “Palestine in the Media” , organizzata dal Palestine International Forum for Media and Communication, è stato questo: se la classe dirigente palestinese non riesce a raggiungere l’unità politica, spetta almeno agli intellettuali insistere sull’unità della narrazione che vogliono proporre. Anche il meno obiettivo tra i Palestinesi riconosce la centralità della Nakba, la pulizia etnica della Palestina e la distruzione delle città e dei villaggi avvenuta tra il 1947 e il 1948. Allo stesso modo, tutti possono, e dovrebbero, convenire, sulle aberrazioni e sulla violenza dell’occupazione, sulla disumanizzazione dei checkpoint militari, sull’erosione di territorio in Cisgiordania ad opera degli insediamenti illegali e della colonizzazione, sulla morsa soffocante imposta su Gerusalemme Occupata (al Quds); sull’ingiustizia del blocco su Gaza e sulle guerre unilaterali condotte sulla Striscia, che hanno causato oltre 4.000 vittime, in massima parte civili, nel corso di 7 anni, oltre che su molte altre questioni.
Il Professor Nashaat Al-Aqtash dell’Università di Birzeit, forse con una maggiore dose di realismo, ha persino ridimensionato le aspettative. Ha infatti dichiarato: “Se solo riuscissimo a concordare sulla narrazione relativa ad Al-Quds e agli insediamenti illegali, sarebbe già un buon inizio”.
La verità è che i Palestinesi hanno più cose in comune di quanto non vogliano ammettere. Sono tutti vittime delle stesse atrocità, tutti combattono la stessa occupazione, subiscono le medesime violazioni dei diritti umani e affrontano un futuro incerto dettato dal medesimo conflitto. Eppure, molti non riescono a separarsi da affiliazioni a gruppi e fazioni, di natura quasi tribale. Non c’è niente di male ad avere delle convinzioni ideologiche o a sostenere un partito anziché un altro. Ma se questo legame diventa predominante rispetto alla lotta collettiva e nazionale per la libertà, si apre una crisi morale. Purtroppo, non tutti ne sono esenti.
Tuttavia, come sempre accade, le cose stanno cambiando. A vent’anni dal fallimento del cosiddetto “processo di pace”, con l’aumento esponenziale degli insediamenti nei territori occupati e con l’esacerbarsi della violenza per il raggiungimento degli obiettivi politici, molti Palestinesi sono stati costretti ad affrontare la dolorosa realtà. Non può esserci libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.
La resistenza non è necessariamente sinonimo di armi e coltelli; può essere anche intesa come lo sfruttamento delle energie dei connazionali in patria e in “shatat” (Diaspora), e la mobilitazione delle comunità a favore della giustizia e della pace nel mondo.
È sconcertante constatare come una nazione umiliata così a lungo sia anche così incompresa e come spesso i carnefici vengano assolti e considerati vittime. Verso la fine degli anni ’50, il Primo Ministro Israeliano David Ben-Gurion si rese conto che era necessario unificare la narrazione sionista relativa alla conquista e alla pulizia etnica della Palestina. Secondo una rivelazione del quotidiano israeliano Haaretz, Ben-Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi sarebbe diventata un vero problema se Israele non avesse dichiarato, a più riprese e in modo coerente, che i Palestinesi avevano lasciato volontariamente le loro terre, seguendo i dettami dei vari governi Arabi.
Si trattava di un’invenzione, ma molte presunte verità non sono altro che una bugia ripetuta nel tempo. Chiese a diversi accademici di presentare una versione falsificata ma coerente della storia dell’esodo dei Palestinesi e il risultato fu il GL-18/17028, del 1961, un documento che costituisce la pietra miliare della “hasbara” israeliana sulla pulizia etnica della Palestina. Il messaggio centrale che contiene è semplice: i Palestinesi fuggirono e non furono cacciati dalle loro case. Israele lo ripete da oltre 55 anni e molti hanno finito per credervi.
Solo di recente, grazie al lavoro di un fiorente gruppo di storici palestinesi, e di coraggiosi israeliani, che si oppongono a questa propaganda, si sta delineando anche una narrazione palestinese, e c’è ancora molto da fare per limitare i danni. La reale vittoria sarà vedere questa versione non come una “contro-narrazione”, ma come verità storica, libera dal peso di un racconto offuscato da bugie e mezze verità.
Credo vi sia solo un modo per concretizzare questo auspicio: gli intellettuali palestinesi dovrebbero investire tempo ed energie a studiare a raccontare la “storia del popolo Palestinese”, per riumanizzarlo e sfidare la percezione generalizzata, che li vede come terroristi o come eterne vittime. Solo quando l’individuo comune sarà posto al centro della storia, i risultati saranno davvero efficaci e duraturi. La stessa logica andrebbe applicata al giornalismo.
Oltre a trovare una storia comune, i giornalisti palestinesi dovrebbero aprirsi al mondo, uscendo dalla tradizionale cerchia degli amici e sostenitori devoti e confrontandosi con la società nel senso più ampio del termine. Gli estimatori della verità, soprattutto quelli animati da una visione umanista, non potranno approvare il genocidio e la pulizia etnica.
Temo che la necessità di controbattere la “hasbara” israeliana in Occidente abbia comportato una profusione eccessiva di energie in alcuni luoghi specifici, tralasciando invece parti del mondo, il cui supporto ai movimenti di solidarietà internazionale è stato finora centrale. Nulla dovrebbe essere preso per scontato. La buona notizia è che i Palestinesi stanno facendo grandi progressi e stanno avanzando nella direzione giusta, pur senza il sostegno della loro classe dirigente. Nena News
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