A fine settembre è stato raggiunto ad Algeri un accordo tra i Paesi OPEC per il taglio della produzione petrolifera. Un accordo fondato su interessi differenti e divergenti che rischia di naufragare ancor prima di essere implementato
di Francesca La Bella
Roma, 7 ottobre 2016, Nena News- A fine settembre è stato raggiunto ad Algeri un accordo tra i Paesi OPEC per il taglio della produzione petrolifera. L’intesa, che dovrà essere formalmente ratificata e messa in atto dopo l’incontro di Vienna del 30 Novembre, prevede una riduzione di circa 740 mila barili al giorno (bpd) portando la produzione dagli attuali 33,2 milioni di barili a 32,5 milioni di barili al mese. Date le diverse condizioni di partenza, l’impatto sulla produzione dei diversi Paesi membri potrebbe essere molto differente. Se l’Arabia Saudita dovrebbe ridurre la propria produzione di circa 400 mila bpd, gli Emirati Arabi Uniti di circa 150 mila e l’Iraq di circa 130 mila, Libia, Nigeria e Iran potrebbero essere esentati dal rispetto dell’accordo. Per quanto riguarda i due Paesi africani, data la grave crisi dovuta alle problematiche interne di sicurezza, la ripresa delle operazioni estrattive non dovrebbe essere fermata dai nuovi accordi. All’Iran, invece, da poco liberatosi dai vincoli delle sanzioni internazionali, verrebbe permesso di conservare le quote attuali e di incrementare di ulteriori 50 mila bpd la propria produzione.
Il semplice annuncio della decisione ha avuto un‘immediata ricaduta sui mercati con indici in rialzo in quasi tutte le borse mondiali e un prezzo del petrolio in crescita di circa il 5% in poche ore. Questo sarebbe, però, solo una piccola parte di quello che potrebbe accadere se il percorso intrapreso venisse portato a compimento. Secondo le stime di Goldman Sachs, nel primo semestre del 2017 il prezzo del petrolio potrebbe arrivare tra i 50 e i 53 dollari al barile con un incremento variabile tra il 16% e il 23%. Numerose sono, però, le variabili che dovranno convergere perché questo risultato possa essere raggiunto. In primo luogo, per quanto tutti i membri OPEC si siano impegnati a vario grado nel taglio delle produzione e tra di essi figurino alcuni dei maggiori produttori mondiali di petrolio come Venezuela e Kuwait, viene considerato necessario il coinvolgimento dei produttori non-OPEC. A questo fine dall’8 al 13 ottobre si terrà ad Istanbul un meeting tra membri OPEC e non-OPEC per coinvolgere i principali Paesi produttori nell’implementazione dell’accordo.
In vista dell’incontro, le previsioni sono, però, divergenti. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, fonti interne all’OPEC avrebbero affermato che l’incontro di Istanbul, che avverrà a porte chiuse, avrà carattere informale e difficilmente potrà portare a decisioni vincolanti per l’applicazione dell’accordo di Algeri a livello mondiale. Maggiore fiducia nel meeting è stata, invece, espressa dal Ministro del petrolio del Venezuela, Eulogio Del Pino, che ha affermato che un accordo tra produttori OPEC e non-OPEC potrebbe portare ad un taglio di 1,2 milioni bdp con un possibile incremento del prezzo del petrolio tra i 10 e i 15 dollari al barile. Parallelamente, il Ministro del petrolio algerino, Nouredine Bouterfa, ha dichiarato che, se dovesse essere necessario, i membri OPEC potrebbero decidere di aumentare il taglio della produzione di un ulteriore 1% durante l’incontro del 30 Novembre per far fronte alle esigenze del mercato.
Il generale clima di fiducia nelle ricadute positive di questo accordo si scontra, però, con i diversi interessi che hanno portato al raggiungimento dello stesso ed ai possibili mutamenti delle condizioni generali che potrebbero mutare il quadro di insieme. In primo luogo si ricordi che due tra i principali attori mondiali in ambito petrolifero non aderiscono all’OPEC: Russia e Stati Uniti. Il gigante russo, dopo aver partecipato come osservatore ad Algeri, potrebbe essere il reale ago della bilancia del meeting di Istambul grazie al crescente potere contrattuale dovuto al sempre maggiore dinamismo nelle questioni di politica internazionale. Gli Stati Uniti, invece, si trovano in una posizione molto difficile. Per quanto il settore petrolifero statunitense beneficerebbe immediatamente di un rialzo del prezzo del petrolio, la politica di espansione dell’offerta attuata fino ad ora dall’OPEC in generale e dell’Arabia Saudita in particolare, era diretta a estromettere dal mercato proprio le aziende USA dato l’alto costo di estrazione dello shale oil (petrolio estratto con il metodo del fracking). Nonostante le compagnie statunitensi siano riuscite a mantenere la produzione anche con un prezzo di vendita inferiore ai 50 dollari al barile, esse potrebbero non riuscire a compensare le perdite date da un blocco delle produzioni e l’accordo avrebbe un risultato positivo sull’economia solo se Washington non dovesse aderire.
I fattori di disequilibrio interni al gruppo OPEC, però, sono ancora maggiori di quelli provenienti dall’esterno. Se per alcuni Paesi come Venezuela e Algeria, l’aumento del prezzo del petrolio potrebbe portare significative entrate economiche in un contesto di stagnazione, per l’Arabia Saudita l’accordo rischia di essere un’arma a doppio taglio. Le politiche messe in atto fino ad ora nel campo delle esportazioni e le ingenti spese derivanti dall’impegno bellico in Yemen, hanno portato a gravi deficit nelle casse saudite. Il taglio delle produzioni con il conseguente rialzo dei prezzi potrebbe, dunque, dare nuova linfa all’economia di Ryad, ma solo se questa crescita riuscisse a compensare le perdite date dall’aumento della produzione di alcuni competitor come Iran e Stati Uniti. L’aumento dei prezzi, favorendo Teheran, non vincolata a tagli di produzione, e lo shale oil statunitense, potrebbe, infatti, indebolire anziché rafforzare l’economia saudita. A questo si aggiunga che la ripresa delle esportazioni da Libia e Nigeria potrebbe, nel medio periodo, vanificare i risultati dei tagli, riportando i prezzi ai livelli attuali, ma con una diversa distribuzione degli utili.
Un ultimo aspetto da tenere in considerazione è l’atteggiamento assunto dall’Iraq. Il Ministro del petrolio iracheno, Jabar Ali al-Luaibi, avrebbe infatti criticato l’accordo di Algeri affermando che la produzione irachena, a suo parere sottostimata dal consesso OPEC, non dovrebbe subire un taglio tanto ingente come quello previsto. Da un lato, la reazione di al-Luaibi ci mostra la realtà di un Paese che, attraverso accordi incrociati con il KRG e i vicini d’area, è riuscito in questi mesi ad incrementare la propria produzione petrolifera e che ambisce a mantenerla per far fronte al collasso dell’economia interna. Dall’altro, però, ci rende evidente la debolezza di un accordo fondato su interessi differenti e divergenti e che rischia di naufragare ancor prima di essere implementato.
Francesca La Bella è su Twitter @LBFra