Durante i preparativi per il 27esimo summit della Lega Araba, ospitato a Nouakchott, le autorità hanno cercato di sgomberare uno slum abitato in maggioranza da ex-schiavi. Ventitré attivisti anti-abolizionisti sono stati poi prelevati dalle loro abitazioni e incarcerati. La difficile strada verso la libertà nell’ultimo paese schiavista del mondo
di Giorgia Grifoni
Roma, 25 luglio 2016, Nena News - E’ cominciato oggi il summit annuale della Lega Araba a Nouakchott, in Mauritania, un vertice che tra assenze eclatanti e rivalità non più nascoste rischia di essere un fallimento, più che un’operazione di facciata promossa dagli stati del Golfo. Tanti, e troppo vaghi, gli argomenti da trattare: dalla crisi siriana a quella libica foraggiate dai vari membri rivali della Lega Araba, dall’ipocrita solfa della “lotta al terrorismo” all’ormai ignorato conflitto israelo-palestinese. Solo otto capi di stato su 22 sono parteciperanno ai lavori: immancabile il presidente sudanese Omar al-Bashir, ricercato per crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale, ma che numerosi membri della Lega Araba rifiutano di estradare nonostante l’adesione alla Corte.
Non ci sarà invece il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, padrone di casa del vertice dello scorso anno. Ma la più grande diserzione è senz’altro quella del Marocco, dove si sarebbe dovuto svolgere il summit di quest’anno in base all’ordine alfabetico dei paesi membri: non solo Rabat ha rifiutato di ospitare i lavori, ma non ha inviato neanche una delegazione. Il ministero degli Esteri marocchino ha rilasciato una dichiarazione per chiarire le ragioni del ritiro: “In assenza di decisioni e iniziative concrete – ha affermato – questo vertice sarà un semplice raduno per i discorsi che implicano la falsa unità tra i Paesi arabi”.
Tra i discorsi fatti in questi ultimi giorni spiccano gli incoraggiamenti del presidente del Parlamento arabo Ahmad bin Mohammad al-Jarwan alla Mauritania per il suo ruolo attivo nel promuovere gli sforzi di unità inter-arabi. Jarwan ha anche fatto un appello agli altri paesi membri perché investano nel paese nel quadro dell’integrazione economica promossa dalla Lega Araba. Come da copione, non una parola è stata spesa per la situazione nel paese, che detiene il triste primato di ultimo al mondo in cui è ancora praticata la schiavitù. Chi ne chiede la fine effettiva, viene perseguitato e incarcerato come “elemento sovversivo”.
Ne sanno qualcosa gli ultimi 23 attivisti arrestati lo scorso 29 giugno dopo lo sgombero di uno slum alla periferia di Nouakchott: si tratta di uno dei terreni privati destinati a progetti di edilizia mai realizzati, sul quale nel corso dei decenni si erano stabilite centinaia di famiglie haratin, la comunità più discriminata e schiavizzata del paese. Secondo la versione del governo, gli attivisti dell’Iniziativa per la Rinascita del movimento abolizionista (IRA) sarebbero stati arrestati nello slum mentre, assieme alle famiglie, opponevano resistenza allo sgombero e attaccavano la polizia. Secondo il comunicato stampa diffuso il 30 giugno dall’IRA, invece, la polizia avrebbe rastrellato le case degli attivisti in seguito allo sgombero, entrando senza mandato di perquisizione. Così, e non sulla scena delle proteste, sei dirigenti e altri 17 attivisti sarebbero stati arrestati e portati via.
Sempre secondo la versione del governo, le autorità avrebbero deciso di “spostare” le famiglie per non “presentare un quadro così terribile della Mauritania prima di un importante vertice arabo”. Nel comunicato ufficiale si ventilavano compensazioni e lotti di terra da assegnare a ciascuna delle famiglie, eppure queste, interrogate dagli attivisti, non erano a conoscenza di alcun tipo di indennizzo. Difficile credere il contrario, stando alle parole degli attivisti e dei ricercatori che si occupano del movimento abolizionista nel paese: secondo le stime diffuse dalle Nazioni Unite, tra il 10 e il 20 per cento dei 3.4 milioni di abitanti del paese sarebbero ancora schiavizzati. La Mauritania è stato l’ultimo paese al mondo ad abolire la schiavitù – nel 1981 – mentre la pratica, ancora in vigore nel silenzio assoluto delle autorità, è stata criminalizzata solo nel 2007.
In Mauritania ancora si nasce e si muore da schiavi. Sono sempre di più le testimonianze di servi neri fuggiti dai padroni, i bidan (bianchi) berberi, rifugiatisi in qualche bidonville della capitale Nouakchott a vegetare all’ombra degli altri schiavi: quelli di città, ufficialmente “uomini liberi” ma in realtà legati da un filo sottile a un nuovo padrone bianco. Chiamati “Haratin” ( schiavi liberati), originari dell’Africa subsahariana ma stanziati nel deserto da molti secoli, sono tradizionalmente i servi dei bidan. Stando alle ricerche di E. Ann MacDougall, docente di storia all’Università dell’Alberta specializzata in Africa occidentale e schiavitù, nonostante siano stati liberati per legge, essi continuano a vivere nel retaggio del loro terribile passato. Non posseggono nulla, non hanno diritto alla terra e vengono discriminati per la tonalità troppo scura della loro pelle: “La loro identità – spiega McDougall in un articolo per OpenDemocracy – è legata per tradizione ai loro ex padroni. Varie forme di interdipendenza tra padroni e schiavi (o ‘clienti’) hanno lunghe e profonde fondamenta storiche della regione. E ora, da uomini liberi, vivono nella scomoda ambivalenza di questo retaggio”.
Il loro impiego più diffuso è quello di guardiani. Vengono lasciati nei terreni privati in cambio di un alloggio di fortuna. Oppure gestiscono lavanderie, vendono cous cous e badano alle greggi: mestieri spesso non pagati che, secondo McDougall, derivano “da una certa intimità instauratasi con la famiglia Bidan in cui tradizionalmente erano schiavi e nella quale eseguivano tutti i lavori domestici”. Un passato che si trascina fino ai giorni nostri, una divisione della società in simil-caste e un problema sociale che è lungi dall’essere risolto: “Le interviste che ho condotto – spiega McDougall – hanno rivelato che molti haratin accettato ‘l’ invisibilità’ in cambio di espressioni contemporanee della tradizionale noblesse oblige del bidan. Allo stesso modo, alcuni ex padroni vivono il fatto di dover aiutare i loro vicini haratin come una responsabilità religiosa”.
Proprio la religione, assieme alla tradizione, viene contestata dagli attivisti abolizionisti come causa del perdurare della schiavitù. E su questo discorso insiste soprattutto Biram Dah Abeid, il leader dell’IRA più volte incarcerato dalle autorità, liberato nel maggio scorso dopo 18 mesi nel famigerato carcere di Aleg – meglio conosciuto come “Guantanamo dell’Africa Occidentale” – per aver dato fuoco ad alcune pagine del Corano nel 2012. In Mauritania vige la Legge Islamica, che è causa secondo Abeid di comportamenti fuori dal tempo: “Il padrone – spiega in una recente intervista ripresa da Global Voices – applica tradizionalmente lo ius primae noctis su tutte le sue schiave: significa che può abusare di tutte senza restrizioni e senza età. E questo è legge in Mauritania, una legge emanata dal codice di schiavitù della comunità tradizionalmente dominante, quella arabo-berbera. Lo chiamano il Libro dell’Islam, ma noi lo chiamiamo il Libro della Schiavitù, il Libro anti-islamico. Questa è la letteratura della vergogna che io ho personalmente e pubblicamente bruciato nel 2012”. Nena News