Nel testo dell’antropologo italiano Nicola Perugini e del politologo israeliano Neve Gordon, Israele e Palestina diventano il microcosmo d’indagine in cui l’appropriazione della retorica dei diritti umani da parte delle forze dominanti per legittimare le proprie politiche si manifesta nella maniera più esasperata e a volte paradossale.
di Irene Canetti
Bologna, 29 maggio 2015, Nena News – Nel maggio del 2012, alla vigilia del vertice Nato nella città di Chicago durante il quale gli Stati membri avrebbero discusso di un sistema antimissilistico di protezione per l’Europa e dell’attuabilità e delle modalità del piano di ritiro delle forze armate dall’Afghanistan, sui tabelloni pubblicitari della metropoli fecero la loro comparsa dei manifesti dall’immagine eloquente: due donne coperte dal burqa a testa bassa, tra di loro una bambina con due enormi occhi spalancati in un’espressione innocente e smarrita. Sulla foto campeggiava la scritta: “Keep the progress going! Human rights for women and girls in Afghanistan”. I poster promuovevano la campagna e il summit ombra firmati Amnesty International contro il ritiro dell’esercito dal teatro di guerra afghano e in favore della già decennale occupazione militare della regione, prospettata come unica strategia per salvaguardare i diritti delle donne afghane e soprattutto per tutelare l’emancipazione delle nuove generazioni. La più grande organizzazione mondiale per i diritti umani contestava in questo modo la smilitarizzazione di un territorio e anzi faceva proprio il linguaggio delle armi e della violenza a sostegno della sua missione umanitaria. Ecco che si confondevano, si invertivano, si mescolavano due linguaggi e due metodi classicamente considerati antitetici, scompariva la contraddizione netta tra i concetti di violenza e di diritti umani, e anzi l’una diventava strumento di tutela e garanzia per gli altri.
E’ con questo riferimento ai fatti di Chicago che si apre la riflessione sulla razionalizzazione e legittimazione della violenza come mezzo di tutela dell’emancipazione umana, ma soprattutto sull’ “inversione”, pratica oltre che semantica, del classico rapporto tra diritti umani e politiche di dominazione, del libro “Il diritto umano di dominare” (“The human right to dominate”, Oxford University Press), dell’antropologo italiano Nicola Perugini (Mellon Postdoctoral Fellow in Italian Studies and Middle East Studies at Brown University) e del politologo israeliano Neve Gordon (Professore alla Ben-Gurion University del Negev). Il libro, presentato in anteprima a Bologna il 27 maggio nell’ambito di un ciclo di seminari di Salute Globale promossi dal Centro di Salute Internazionale dell’Università, e la cui uscita sarebbe prevista per il 7 giugno prossimo, indaga analiticamente la normalizzazione di una contraddizione che ha messo in discussione il “modello idraulico” della letteratura politica classica: se in linea teorica un maggiore dibattito sui diritti umani dovrebbe corrispondere a uno scenario di minore dominazione e maggiore emancipazione, nella pratica quest’equazione non regge più, ed è invece come irreversibilmente invertita.
L’appropriazione del discorso sui diritti umani da parte di fazioni politiche contrapposte e di organizzazioni aventi contrastanti finalità è una questione che non riguarda solo lo scenario israeliano, descritto nell’opera, ma che di fatto è al centro dell’evoluzione della politica contemporanea occidentale e del cambiamento dei suoi linguaggi e dei suoi metodi. Quello della tutela dei diritti umani è diventato, secondo la tesi di Perugini e Gordon, il terreno comune in cui si gioca ogni partita politica, sia nazionale che internazionale. Basti pensare alla retorica del partito di Marine Le Pen in Francia che difende i diritti delle donne in chiave antimusulmana, o alle campagne in tutela dei diritti della famiglia tradizionale in Russia usate per attaccare le unioni omosessuali, o in Italia alle polemiche del leghista Salvini sulla notizia, tra l’altro falsa, della pensione giornaliera di 35 euro offerta ai richiedenti asilo, considerata un’offesa nei confronti degli Italiani ai quali non viene garantito il diritto al lavoro o il diritto alla casa. La retorica dei diritti, ad ogni latitudine, è divenuta la chiave vincente di ogni campagna politica, a destra come a sinistra.
Israele e Palestina diventano in questa analisi il microcosmo in cui l’appropriazione della retorica dei diritti umani da parte delle forze dominanti per giustificare e portare avanti le proprie politiche si manifesta nella maniera più esasperata e a volte paradossale.
“Lo scopo del nostro lavoro” ha spiegato Perugini “è stato quello di comprendere come i diritti umani, chiunque sia ad “appropriarsene”, come discorso e come pratiche, vengono poi tradotti nel concreto, sia dai liberali che dai reazionari, ponendo le parti in un rapporto dialettico, esaminando l’uguale centralità che essi assumono nel linguaggio dei dominati e nella retorica dei dominatori, e confrontando, ad esempio, il lavoro di organizzazioni come Human Rights Watch in Palestina e quello delle organizzazioni dei coloni per i diritti umani in Israele”.
Anche i coloni israeliani, infatti, al pari degli attivisti contro l’occupazione e dei Palestinesi – ed è in questo che risiede il “paradosso” di Israele, come recita il primo capitolo del saggio – si sono organizzati in vere e proprie ONG per la tutela dei diritti umani. Uguale è il linguaggio utilizzato nelle battaglie delle due controparti, uguali le modalità d’azione: entrambe si servono delle stesse strategie di advocacy per sostenere le loro cause e delle medesime tecniche di produzione di prove in loro favore, ricorrono agli stessi tribunali, si sottopongono alla stessa giustizia. Coloni e colonizzati unanimamente riconoscono i diritti umani come unica “forza epistemica” in grado di definire, in maniera “imparziale”, chi è “dominato” e chi è “dominante”, chi è la vittima e chi il carnefice, chi va tutelato e chi incriminato. Il terreno comune diventa il diritto, a differire è lo scopo, la finalità per cui vi si ricorre: i Palestinesi per difendersi dai coloni, i coloni, paradossalmente, per difendersi dai Palestinesi. Un processo di “mirroring”, di rispecchiamento, tra due attori contrapposti che in maniera identica si riconoscono come fautori e garanti dei diritti umani.
Quando, poco prima della seconda Intifada, gruppi di coloni furono espulsi da alcuni avamposti in Cisgiordania e in particolare dalla città di Hebron, e ancor più quando nel 2005 Sharon (allora Primo Ministro di Israele) decise di mettere in atto l’evacuazione dei coloni dalla Striscia di Gaza, si accese un dibattito apocalittico, che finì per scatenare le reazioni del mondo politico e intellettuale su scala internazionale, sulla minaccia che il piano rappresentava per i diritti umani degli evacuati. Le ONG dei coloni, capeggiate da “Yesha”, accusarono allora il loro stesso governo di sospendere, con quel provvedimento, lo Stato di diritto, e l’indignazione in Israele finì per accomunare tutti, anche liberali e gruppi contro l’occupazione. Si parlò addirittura di secondo Olocausto, di una nuova forma di pogrom, di pulizia etnica nei confronti dei coloni.
Di come la dialettica politica interna allo Stato di Israele si sia quasi interamente trascinata tutta sul piano della tutela dei diritti umani spiega più nel dettaglio il quarto capitolo, “Il diritto umano di colonizzare”, che parte dall’esame di un accurato report dal titolo “La perversione della giustizia” pubblicato nel 2010 da Regavim, organizzazione per i diritti umani dei coloni nata un anno prima, all’indomani del formale decreto di congelamento della creazione di nuove colonie nei Territori Occupati. Con accuratezza, il pamplhet passava in rassegna casi documentati dalla stessa ONG di ville palestinesi sorte abusivamente e ancora in piedi da una parte, e dall’altra di piccoli avamposti di coloni che erano invece stati demoliti poco dopo la loro costruzione per ordine del governo. Con il materiale raccolto, Regavim mirava ad accusare lo Stato e in particolare la Corte Suprema Israeliana di attuare un’autentica discriminazione nei confronti degli Israeliani: l’allarme lanciato dalla ONG era quello di una politica “razziale” contro i coloni che metteva in pericolo la democrazia e la legalità di Israele e che minacciava le fondamenta dell’antico progetto sionista.0
Alla luce del ricorso comune a strumenti quali petizioni e denunce di presunte violazioni, dell’appello al rispetto dei diritti umani nella retorica e nell’agire pratico dei coloni, degli agenti segreti, dello stesso esercito israeliano che sul web propaganda addirittura la sua attività con la pagina “IDF Without Borders”, imitando nel nome e nelle immagini la missione umanitaria della organizzazione di medici premio Nobel per la Pace, il confine tra dominanti e dominati sfuma e scompare, i ruoli paiono invertirsi. I Palestinesi sembrano trasformarsi, attraverso la strumentalizzazione e “mis-appropriazione” del discorso sui diritti da parte dei coloni, nella minaccia, i coloni nelle vittime private del diritto umano di abitare la terra. Chi sarebbero, dunque, alla luce delle narrazioni coloniali, gli occupanti e chi gli occupati? Evidenziando come l’asimmetria tra le due parti e lo sbilanciamento totale tra le loro forze e le loro istanze rischino di essere appianate ed annullate dalla capziosa appropriazione da parte degli oppressori del linguaggio degli oppressi, il libro tocca, attraverso un’inchiesta accurata e intelligente, il nervo scoperto della questione palestinese: il rapporto tra la vittima e il perpetratore, la tensione tra le storie di dolore e di umiliazione di due popoli a confronto che è da sempre il nodo gordiano della politica in Medio-Oriente, anche a causa delle interpretazioni spesso tendenziose alle quali uno dei due schieramenti l’ha storicamente piegata.
Il paradosso nasce con la fondazione stessa dello Stato di Israele, quando, per riparare all’abominio della Shoah e alla vergogna del crimine contro l’umanità commesso in Europa con la persecuzione di un popolo intero, si accettò, più o meno tacitamente, che il dramma si risolvesse attraverso una sorta di moderna forma di “settler colonialism” in Palestina. Chi sarebbe, dunque, la vittima, e, soprattutto, quale delle due parti meriterebbe di appropriarsi dello “scudo” dei diritti umani? Il mascheramento di una politica di dominio da parte di Israele attraverso la retorica dei diritti parrebbe permettere una inversione dei ruoli e una legittimazione del ruolo degli occupanti. Il testo, in maniera critica, mira a scardinare questa arbitraria e ambivalente dialettica confondente, senza mai, tuttavia, ridurla ad una semplicistica analisi su di una qualsiasi politica colonialistica. Perugini cita Mahmud Darwish, il poeta palestinese che riflettendo sulle sorti della sua gente e su quelle di Israele nel 1996 in un’intervista diceva: “Il mio conflitto con l’altro ruota attorno ad una singola questione: chi tra noi oggi merita lo statuto di vittima. Ho spesso detto all’altro, scherzando: «Scambiamoci i ruoli: tu sei una vittima vittoriosa, io sono una vittima dominata.»
Stabilire una giustizia nel rapporto tra le parti e sciogliere questo nodo non sarà possibile, afferma sempre Perugini, fino a che non si sarà ridefinita una nuova genealogia dei diritti umani e non si sarà elaborato un loro nuovo senso comune nella politica moderna. Essi non escono sconfitti da questa disamina che li vede spesso piegati ai linguaggi del dominio e strumentalizzati nei discorsi legittimanti la forza e l’occupazione, ma acquistano certamente un valore inedito che pone una necessità impellente e controversa: ridefinire il paradigma dei diritti umani, prima che il paradigma contro-intuitivo che li accosta ad una dichiaratamente razionale e logica etica del dominio non si appropri del tutto del loro significante, privandoli definitivamente del loro significato. Nena News
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