A più di quattro anni dalle rivolte contro Gheddafi, il Paese vive una situazione di grave instabilità politica (due governi e decine di formazioni armate le cui alleanze variano al mutare del bilanciamento delle forze in campo). In questo contesto di fallimento dell’essenza statuale, la stessa scelta di un gruppo piuttosto che di un altro per la difesa dei pozzi di petrolio o dei porti di partenza delle materie prime in direzione dell’Europa diventa strumento di investitura di legittimità.
di Francesca La Bella
Roma, 23 giugno 2015, Nena News – Negli ultimi mesi la questione libica è tornata centrale nel dibattito politico europeo. La guerra civile in atto e la perdurante condizione di instabilità del Paese nord-africano, considerate le cause principali del flusso di migranti verso l’Europa, sono state analizzate e stigmatizzate come problematiche per la sicurezza del Vecchio continente la cui soluzione viene considerata di prioritaria importanza. La proposta italiana di intervento e il successivo dibattito tra i Paesi dell’Unione ha evidenziato i differenti approcci alla questione, ma in tutte le analisi si può ritrovare la stessa mancanza di attenzione sul destino della popolazione libica. La centralità data all’equa distribuzione dei migranti tra i diversi Paesi ed al pericolo di infiltrazione di militanti dello Stato Islamico attraverso questi canali ha posto in secondo piano le condizioni di vita interne alla Libia.
A partire dal 2011 il Paese è teatro di scontri e violenze. Le rivolte contro Gheddafi, l’attacco internazionale, la successiva deposizione del Generale e la guerra civile per la successione al potere hanno lasciato, infatti, il Paese in balia di forze regolari ed irregolari. L’esistenza, ad oggi, di due Governi, uno internazionalmente riconosciuto a Tobruk ed uno a Tripoli, non deve, però, farci pensare che la Libia sia un Paese diviso a metà e che la soluzione possa scaturire da colloqui di pace tra le due fazioni. Gli attori in campo sono, infatti, ben più numerosi.
Mettendo momentaneamente da parte il ruolo ricoperto nel Paese dallo Stato Islamico, sembra necessario evidenziare la rilevanza di figure come Khalifa Haftar, ex generale di Gheddafi, ora alla guida dell’esercito regolare, o come Mokhtar Belmokhtar, militante algerino di Al Qa’eda nel Maghreb Islamico, la cui morte in terra libica è stata annunciata la settimana scorsa per poi essere immediatamente smentita dai portavoce di diversi gruppi islamisti attivi nell’area. A questi bisogna, poi, aggiungere le decine di gruppi di diversa provenienza politica, religiosa, etnica e geografica che, al mutare del bilanciamento tra le forze in campo, variano le proprie posizioni e le proprie alleanze. All’interno di questo contesto di fallimento dell’essenza statuale del Paese, gli interessi internazionali trovano ampio spazio e la stessa scelta dell’uno o dell’altro gruppo per la difesa dei pozzi di petrolio o dei porti di partenza delle materie prime in direzione dell’Europa diventa strumento di investitura di legittimità.
I riflessi di questo stato di instabilità permanente sono evidenti nella società libica. Secondo i report delle Nazioni Unite, solo nell’ultimo anno, i profughi interni avrebbero raggiunto le 400.000 unità, mentre i morti sarebbero già più di 2000. Gli ospedali, laddove ancora operativi, risultano al collasso per gli effetti delle battaglie e viene stimato che oltre 2,5mln di persone non abbiano accesso ai servizi sanitari di base. Molte scuole sono state chiuse o distrutte e in alcune zone del Paese, soprattutto nell’area orientale, i servizi educativi sono stati totalmente sospesi. A questo si aggiunga un sistema economico che, prima della caduta di Gheddafi era basato quasi esclusivamente sul commercio degli idrocarburi e sui servizi dello Stato. Le difficoltà nel garantire la sicurezza dell’estrazione e dell’esportazione di gas e petrolio e il collasso del sistema statale ha lasciato migliaia di persone senza mezzi di sostentamento. Se molti, soprattutto migranti economici stranieri, allo scoppio della guerra hanno fatto ritorno nei loro Paesi di provenienza, molti altri sono rimasti in Libia dove trovano impiego, perlopiù, nell’economia informale o tentano la traversata del Mediterraneo per giungere in Europa.
A completamento del quadro si aggiungano mancanza di acqua potabile, servizi elettrici discontinui o totalmente assenti e forze di sicurezza incapaci di salvaguardare la popolazione civile quando non loro stesse una minaccia. Il senso di instabilità è tale che, secondo un’indagine del centro di ricerca Arab Trans, quasi il 60% dei libici, dovendo dare una votazione da 1 a 5 per definire la propria percezione di sicurezza, avrebbero scelto il livello più basso. Analizzando il contesto globale, questi dati non dovrebbero stupire. Quasi ogni giorno possiamo trovare notizie di scontri e bombardamenti e la presenza di una miriade di gruppi irregolari fa si che la battaglia sia diffusa a tutto il territorio libico. Se alcune testimonianze affermano che a Bengasi quest’anno sia possibile, nonostante le difficoltà oggettive date dalla guerra, provare a festeggiare il Ramadan, in altri contesti la situazione sembra peggiorare giorno dopo giorno.
Solo nell’ultima settimana è stata data notizia di rastrellamenti a Tripoli nei quartieri fedeli a Khalifa Haftar, di bombardamenti a Sirte per distruggere la roccaforte dello Stato Islamico e di 8 persone uccise a Sebha, capitale del Fezzan, da uomini armati con conseguenti proteste di studenti universitari per la mancanza di sicurezza della provincia.
La condizione interna alla Libia è, dunque, particolarmente preoccupante e, come è ormai evidente da molti anni, il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione non è considerata una priorità. Nena News
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