Il mondo applaude gli Emirati, fautori di un nuovo pacchetto di norme contro le frodi nei contratti di lavoro. Mistero su come i migranti potranno impugnare il contratto o rivolgersi in qualche modo alle autorità. Fuori dalla legislazione restano comunque 300 mila collaboratori domestici. E il Qatar, che voleva “cancellare la Kafalah entro la fine del 2015″, ha solo cambiato i connotati a questa moderna forma di schiavitù
di Giorgia Grifoni
Roma, 2 novembre 2015, Nena News - Si sono sbracciati tutti per complimentarsi con Abu Dhabi, persino Human Rights Watch. Il nuovo pacchetto di norme contro le frodi nei contratti di lavoro, varato a settembre e in vigore dal prossimo gennaio, sembra infatti un passo in avanti nella lotta alla protezione dei lavoratori immigrati, che costituiscono il 90 per cento della forza lavoro nel regno del Golfo. Schiavi moderni in provenienza soprattutto dall’Asia, legati indissolubilmente al proprio datore di lavoro da un sistema di garanzia chiamato Kafalah che impedisce al salariato di cambiare padrone o protestare per il suo trattamento – pena l’espulsione dal paese - i migranti potranno ora contare su una debole legislazione a loro favore. Ma non tutti.
Secondo il decreto ministeriale che ne annunciava l’approvazione, i lavoratori che arrivano negli Emirati non possono iniziare a lavorare “fino a che un’offerta di lavoro conforme con il contratto standard non sia presentata e debitamente firmata dal lavoratore” . I datori, come si legge in un articolo del portale Middle East Eye, dovranno utilizzare il modulo standard del Ministero del Lavoro, in cui compaiano ben in evidenza retribuzione, data e durata del contratto, e la natura del lavoro da eseguire. Condizioni contrattuali normali, che però per i lavoratori immigrati, nei paesi del Golfo, non sono mai esistite. La regola è che il migrante, tramite un’agenzia di collocamento nel suo paese, trovi un datore di lavoro disposto a sponsorizzarlo, cioè ad assumerlo a distanza in modo che possa ottenere un permesso di lavoro. La Kafalah si basa su queste premesse.
Molti dei lavoratori hanno sostenuto che i reclutatori locali nei loro paesi d’origine avessero promesso stipendi che non sono onorati dai datori di lavoro degli Emirati Arabi Uniti. Spesso, poi, al lavoratore veniva immediatamente sequestrato il passaporto, in modo che non potesse scappare. Abusi e violenze sarebbero all’ordine del giorno, con i lavoratori immigrati del tutto privi di tutela o di un sindacato. Naturale che Human Rights Watch abbia accolto con favore la legislazione, “la prima di questo tipo” nel Golfo, anche se ha avvertito che “la sua importanza sarà giudicata in base sua attuazione”.
Non è escluso, infatti, che per il lavoratore immigrato sia impossibile impugnare il suo contratto o rivolgersi in qualche modo alle autorità: “Il suo successo – ha dichiarato Joe Stork, vice direttore di HRW per il Medio Oriente – dipende dal fatto che i lavoratori avranno accesso ai meccanismi di reclamo quando di lavoro non rispettano le nuove regole. I lavoratori devono essere in grado di conservare copie del contratto di lavoro standard di firmano nei loro paesi d’origine, i contratti devono essere scritti in una lingua che capiscono, e dovrebbero essere in grado di accedere a un meccanismo di reclamo negli Emirati Arabi Uniti che possa risolvere i problemi in modo rapido e punire i trasgressori”.
Abu Dhabi, inoltre, sta pensando a introdurre nuove leggi a partire da gennaio che consentano al lavoratore di lasciare il proprio datore, nel caso in cui lo stipendio non vengo versato per un periodo superiore ai 60 giorni. L’unica possibilità, in un paese che privilegia la versione dei propri concittadini, è che una corte si esprima in favore del lavoratore immigrato in caso di contenzioso. Doppia beffa, quindi, per i circa 300 mila collaboratori domestici che, oltre a restare fuori dalla nuova legislazione – i loro contratti non sarebbero stati inclusi – non hanno la possibilità di cambiare datore come la avranno gli altri. Vittime di abusi, spesso protagonisti di casi di cronaca nera, chiusi tra le quattro mura di una casa, costretti a orari disumani, senza ferie e per paghe da fame, i domestici – la metà delle quali sono donne – rappresentano la categoria più vulnerabile tra i lavoratori immigrati.
Situazione simile anche in Qatar, finito al centro delle polemiche internazionali per le condizioni disumane dei lavoratori immigrati nei cantieri della Coppa del Mondo 2022. Non solo all’estero sono state avviate indagini contro aziende invischiate nello sfruttamento dei migranti e le autorità di Doha sono state pubblicamente minacciate dalla Fifa di perdere il Mondiale, ma centinaia di persone sono morte nei cantieri per un lavoro che rasentava la schiavitù. La Confederazione Internazionale dei Sindacati, in un rapporto diffuso lo scorso anno, ha stilato un resoconto sulle condizioni di vita e di lavoro di un milione e 400 mila immigrati in Qatar, prevedendo che, a quest ritmi, altri 4 mila di loro non sopravviveranno.
Ora anche Doha ha introdotto trionfalmente nuove norme per migliorare le condizioni di “lavoro” dei suoi moderni schiavi: l’ambizioso obiettivo, a detta delle autorità del piccolo emirato, era quello di “eliminare la Kafalah entro la fine del 2015″. Per questo, quando martedì scorso lo sceicco Tamim Bin Hamad Al-Thani ha annunciato di aver approvato una nuova legge che “sovrintenda il sistema di sponsorizzazione” – che attualmente consente ai lavoratori di lasciare il paese solo con l’approvazione del loro datore di lavoro – e che “consenta ai lavoratori di cambiare posto di lavoro”, le organizzazioni per i diritti umani sono insorte.
Giudicata “una farsa” dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (CIS), uno dei più feroci critici di Doha, la nuova legislazione prevede che i lavoratori stranieri che desiderano lasciare il Qatar richiedano l’autorizzazione con almeno 72 ore di anticipo al Ministero degli Interni. Se, come spiega il portale Middle East Online, questa autorizzazione venisse inizialmente negata, i dipendenti che cercano di lasciare il paese potranno rivolgersi – come è il caso ad Abu Dhabi – a un comitato per i reclami. “La nuova legge sul lavoro – ha dichiarato Sharan Burrows, segretario generale della CIS – non abolisce i noti permessi di uscita, e i lavoratori devono ancora ottenere il permesso dei loro datori di lavoro per lasciare il paese”.
Non è chiaro in che modo i lavoratori potranno cambiare datore di lavoro – la legislazione corrente non prevede in alcun modo che un impiegato immigrato, sbarcato a Doha dopo essere passato per la Kafalah, rompa il proprio contratto di lavoro – né quando il pacchetto di norme entrerà in vigore. Certo è che la strada è ancora lunga anche solo per pensare di cambiare le modalità di questa moderna schiavitù. Nena News