Sono tra i 67 e gli 80 i giornalisti turchi detenuti, calcolano due rapporti appena usciti. Uno ogni sei ha un processo in corso. Accuse simili, dal terrorismo alla diffusione di segreti di Stato, e lunghe pene carcerarie che hanno travolto anche figure simbolo del giornalismo nel paese
della redazione
Roma, 16 marzo 2021, Nena News – “Il più grande carceriere di giornalisti del mondo”: così l’ultimo rapporto della International Federation of Journalists (Ifj) definisce la Turchia, sulla base dei dati del 2020, in costante aggiornamento. Sono almeno 67 i giornalisti detenuti in Turchia, arrestati dopo il tentato golpe del luglio 2016 e accusati per lo più di partecipazione al colpo di Stato e di terrorismo. Primo paese al mondo, seguito dalla Cina e l’Arabia Saudita.
Peggiori i dati forniti dall’organizzazione per i diritti della stampa Media and Law Studies Association (Mlsa, da anni impegnata a fornire sostegno legale gratuito e a monitorare i processi ai reporter) che da Istanbul lo scorso sabato ha denunciato numeri peggiori: 80 giornalisti detenuti, di cui pubblica i nomi. Cinque di questi sono donne.
L’ultimo caso di sentenza al carcere risale all’8 marzo: due giornalisti condannati con l’accusa di diffusione di segreti di Stato. Müyesser Yıldız, dell’emittente online di Ankara OdaTv, è stato condannato a tre anni e sette mesi; İsmail Zeki Dükel, di TELE1, a un anno e 15 giorni, riporta il sito di informazione Ahval. Erano stati arrestati lo scorso 12 giugno con l’accusa di spionaggio, poi traslata nell’accusa di diffusione di segreti di Stato per alcuni articoli relativi all’intervento militare turco in Libia. Con loro è stato condannato a sette anni e sei mesi anche il militare Erdal Baran, accusato di avergli fornito le informazioni.
Gli ultimi quattro anni e mezzo, dal tentato e fallito golpe del 2016, la macchina statale ha stretto le maglie della libertà di stampa, colpendo i media indipendenti con processi e accuse giudicati dall’estero pretestuosi, volti a un obiettivo preciso, l’auto-censura dei giornalisti. Lo dicono i numeri del Media Monitoring Report, publicati a metà febbraio relativi al 2020: un giornalista su due è stato minacciato almeno una volta, uno su quattro è stato soggetto a violenza fisica, uno su cinque è stato arrestato e uno su sei ha un processo in corso.
Alle epurazioni nelle istituzioni statali, dalle scuole alle università, dalle forze armate alla magistratura, si è accompagnata una campagna di denigrazione della stampa che ha condotto a processi e condanne di importanti giornalisti e scrittori, dal direttore di Cumhuriyet Can Dundar (condannato a 27 anni per rivelazione di segreti di Stato e costretto all’auto-esilio in Germania) al noto romanziere ed editorialista Ahmet Altan (condannato all’ergastolo nel 2018, poi tramutato in 10 anni anni, rilasciato e infine arrestato nuovamente per la stessa accusa nel novembre 2019) fino alla scrittrice Asli Erdogan (arrestata il 16 agosto 2016 con altri 22 giornalisti del giornale Özgür Gündem per propaganda terroristica; è stata scarcerata quattro mesi dopo).
A raccontare bene la situazione è un reportage di Pri, pubblicato una settimana fa, sulla vita della più grande agenzia di stampa curda in Turchia, la Mesopotamia Agency, con 100 giornalisti sparsi in otto uffici nel paese: “Tutti noi siamo stati arrestati almeno una volta”, racconta Sadık Topaloğlu, il giornalista che dirige l’ufficio di Istanbul. Principalmente l’accusa è sempre la stessa: propaganda a favore del Pkk o appartenenza al gruppo. O si viene detenuti o il sito viene bloccato, raccontano: alla Mesopotamia Agency è successo già 29 volte. Nena News