Da Beirut a Sidone i campi sono sovraffollati e i servizi scarseggiano. Per migliaia di persone la precarietà è diventata normalità e con l’arrivo dei siriani le condizioni di vita peggiorano. Il reportage di Alessandra Fava
di Alessandra Fava
Beirut, 8 marzo 2014, Nena News – Per vedere il sole a Shatila devi salire sei o sette piani e raggiungere un terrazzo. Smorzato qualche bagliore che colpisce di traverso ”fra le cimase” (come dice Montale) man mano che sali, vieni inondato dai raggi. È qui in cima che vengono a giocare i bambini di un asilo di Shatila con pareti colorate e uno scivolo. Colori, luce, calore. Giocare e vedere il sole non sono cose scontate a Shatila, uno dei dodici campi profughi palestinesi assistito dall’Unrwa, l’agenzia per i palestinesi delle Nazioni unite. Profughi di lunga data: molti sono arrivati qui ai tempi della Nakba (1948), soprattutto dal Nord dell’attuale Israele, costa ed entroterra di Haifa, di Acco.
Dopo oltre 65 anni, la quarta generazione continua a vivere in questo campo, distrutto e ricostruito un’infinità di volte, simbolo della precarietà di un popolo. Nonostante siano passati decenni, i palestinesi libanesi non hanno passaporto, non sono riconosciuti come cittadini, non possono praticare oltre 70 professioni, non hanno diritto al voto: sono dei paria. ”Al governo libanese chiediamo solo il rispetto dei diritti umani – dice Kassem Aina, fondatore e presidente della ong palestinese Assomud, – ci consideriamo ospiti e continuiamo a rivendicare il diritto di tornare nella nostra terra’‘.
Dei 441mila palestinesi che vivono in Libano, la metà sono nei campi. A Shatila oggi ci sono 7mila palestinesi ”libanesi” e 10mila palestinesi ”siriani”, su un totale di 22 mila persone, tutte costrette in un chilometro quadro, falansteri addossati l’uno all’altro, vicoli stretti da cui penzola un intrico di fili e tubi. Una via leggermente più larga attraversa il campo per metà e qui si affollano negozi, bancarelle, venditori ambulanti come quello del pesce che trasporta i suoi sacchi su una bancale e grida ”samaka, samaka” e il grido rimbomba tra i vicoli perché qui il frastuono delle auto delle vie laterali non arriva. Come non arriva un’ambulanza quando deve soccorrere qualcuno, come fatica un disabile che deve essere sollevato a braccia su per le scale, in cemento armato disadorno, come di un cantiere lasciato a metà.
”Shatila non è un campo palestinese – dice un libanese – è diventato un posto di prima immigrazione, dove vanno quelli che vogliono pagare un affitto basso”. In effetti ci abitano anche siriani, bengalesi, indiani. Gli faccio notare che l’Unrwa lo annovera tra i campi e fornisce scuole e ambulatori. Il mio interlocutore storce il naso. Non corre buon sangue con i palestinesi da quando Hamas sostiene l’opposizione siriana al presidente Bashar al Assad ed Hezbollah. Pensare che anni fa in Cisgiordania gli autisti dei minivan tra un check point e l’altro mettevano su una cassetta, ”Nasrallah, Nasrallah”.
C’è un pezzo di Palestina che i profughi palestinesi ”libanesi” si portano nel cuore. E non sono solo le piantine, le bandiere, i manifesti degli shaid morti contro l’occupazione israeliana, è la permanenza di narrazioni, la ferita aperta. ”I miei nonni parlavano sempre di El Yajour, un villaggio vicino al Carmelo, si vedeva il mare e d’estate si stava al fresco – racconta Jamila Shahady, coordinatrice della ‘Casa degli orfani, Fortitudo’ di Assoumoud a Shatila – li prendevamo in giro, dicevamo che sembrava parlassero del paradiso, poi una mia cugina che ora ha un passaporto americano è riuscita ad andare e mi ha detto che avevano ragione. Vorrei vedere il mio paese, è quello che insegno ai bambini ogni giorno: non perdere la speranza di tornare a casa”. Come Hair Muhsen, 63 anni oggi cieco, e Fatima Rassawi, 61, un handicap permanente all’anca ricordo amaro di un cecchino, che hanno vissuto nelle tende, visto la costruzione del campo di Shatila, la sua distruzione nella guerra dell’82 e altri bombardamenti. ”Morale abbiamo ricostruito la casa tre volte” dicono. Vivono non lontano dall’asilo di Assomoud aperto per gli orfani del massacro di Sabra e Shatila del 1982, quando le truppe falangiste appoggiate dagli israeliani massacrarono almeno 3mila persone (alcuni storici parlano di 8mila). Oggi ospita 120 bambini, una trentina di giovanissimi siriani che imparano l’inglese, mense, aule e anche un ambulatorio dentistico al piano terra ch, come racconta il dottor Ahmed Abu Raya, ”ogni mattina cura gratuitamente una trentina di bambini e nel pomeriggio gli adulti facendo pagare solo il materiale”.
I profughi siriani arrivano a frotte a Shatila, come negli altri campi libanesi. ”I campi accolgono, si riempiono di gente, ma non ci sono le infrastrutture – dice ancora Kassem Aina – Nel 1948 c’erano 100mila persone in Libano, oggi ce ne sono quattro volte tanto”. A febbraio si contava già 51mila persone di origine palestinese arrivate dalla Siria, ma le cifre si gonfiano giorno per giorno: il totale dei profughi supera il milione e un quarto di loro ha meno di 5 anni, secondo le Nazioni Unite. In una mattinata nel campo di Mye Mye, vicino a Sidone, si sono registrate una dozzina di famiglie, tutte con diversi bambini. Arrivano anche dai quartieri a valle del campo (Sirop, Nadisubat, Ham Shari, Smalyeh), portano i documenti e il presidente del comitato popolare del Plo, Galeb Dnan, rilascia un cartoncino col quale possono accedere ai servizi dell’Unrwa. Quattro famiglie arrivano da Yarmuk e sono qui da un mese, ”mia figlia studiava all’università in Siria e ora ha dovuto interrompere gli studi”, dice con rammarico una donna. Chiedo a Galeb se non gli sembra straziante che ci siano dei profughi al quadrato, scacciati prima dalla Palestina e oggi dalla Siria, mette le mani avanti: ”il Plo ha deciso di non immischiarsi nella guerra siriana, né contro né a favore di qualcuno. Semplicemente ne stiamo fuori”.
Così mentre le strade di Beirut si riempiono di mendicanti, le parrocchie, le moschee e l’Università americana raccolgono vestiti e cibo. A una famiglia siriana con sei figli, arrivati un mese fa con la madre senza nient’altro che i vestiti addosso, a Shatila hanno dato materassi, pentole e coperte. A Mye Mye lo stesso. ”Dividiamo quello che abbiamo”, dice Nisrin Al Khaldy energica trentenne, prima donna eletta in un comitato popolare di un campo profughi palestinese in Libano, oggi impegnata nell’Unrwa e senza marito ”perché voglio essere libera e volare”, spiega con un sorriso mentre il suo smartphone cinguetta imperterrito l’ultimo tweet. Nena News