I mizrahi vogliono che lo stato israeliano apra i documenti secretati sulle adozioni e riconosca ufficialmente i suoi crimini contro gli ebrei di origini arabe
di Yuval Abraham* – al-Jazeera
Roma, 3 ottobre 2017, Nena News – Tamar Maatuf, 90 anni, ha pianto quando si è ricordata di suo figlio che, afferma, le è stato rapito poche settimane dopo che l’aveva partorito. “Il mio cuore è spezzato. Ringrazio Dio per avermi donato dei figli, ma quello [perso] non lo dimenticherò mai” ha detto durante la protesta delle famiglie degli ebrei mizrahi, vittime del furto di bambini avvenuto in Israele negli anni ’50. Ha un cartello che recita: “Caro figlio, non ho rinunciato a te. Ti aspetto, mamma”.
I mizrahi, “quelli dell’Est” in ebraico, sono ebrei israeliani le cui famiglie provengono da paesi islamici o arabi. Costituiscono circa metà della società d’Israele, ma sono un gruppo marginalizzato. “Giustizia! Riconoscimento!” hanno gridato lunedì [25 settembre, ndr] in centinaia per le strade di Tel Aviv.
Molte testimonianze delle vittime raccolte da “Amram”, l’associazione che ha organizzato la manifestazione [la settimana passata], raccontano una storia agghiacciante: fino a 5.000 bambini sani sono stati tolti ai loro genitori con il falso pretesto che erano malati e, successivamente, sono stati dati in adozione. I loro genitori, nella maggior parte dei casi, non li hanno più rivisti. Prove raccolte da giornalisti e osservatori israeliani hanno mostrato che gran parte dei bambini scomparsi appartenenti a famiglie mizrahi appena immigrate [in Israele] è stata venduta o data agli ebrei europei, gli ashkenaziti.
La giornalista israeliana Yael Tzadok, che ha indagato sul caso per 20 anni, aveva dichiarato ad al-Jazeera in un precedente articolo che “i genitori mizrahi erano considerate persone cattive, primitive, una causa persa. L’idea prevalente allora era che i bambini, dati alle famiglie ashkenazite, si sarebbero potuti salvare a differenza di quanto sarebbe successo se fossero rimasti con i loro genitori. Sarebbero stati ri-educati diventando materiale idoneo per il nuovo stato sionista”. I dottori e le infermiere spiegavano ai genitori che i bambini erano morti, ma non davano loro prove. “Mia madre ha messo al mondo una bambina bella e sana di nome Batya” ha detto ad al-Jazeera la manifestante Yehudit Zfira parlando della sorella rapita. “Gli ufficiali vennero al campo dove mia madre viveva dicendo che i genitori e i bambini dovevano essere separati così da proteggere i neonati. Le madri avrebbero però potuto allattarli di tanto in tanto”.
Una mattina la mamma di Zfira allattò una bambina all’apparenza sana, ma quando ritornò più tardi nel corso della giornata sua figlia non c’era più. “Dissero che era malata e che era stata portata in ospedale, ma quando mia madre andò lì, una infermiera le comunicò che la bambina era morta” racconta. “Lei impazzì, così chiese di vederla perché sapeva che era sana, ma non glielo permisero. Alla fine l’infermiera sbottò arrabbiata: ‘Ora basta! Avrà altri figli’. “Oggi mia madre ha 86 anni e non c’è giorno in cui non menziona Batya” ha aggiunto Zfira. I partecipanti alla manifestazione hanno chiesto allo stato di aprire i fascicoli secretati sulle adozioni, di riconoscere ufficialmente i suoi crimini e istituire un giorno della memoria nazionale per le vittime. Importanti politici israeliani come Yitzhak Herzog, il leader dell’opposizione in parlamento, hanno partecipato al presidio. Ciò mostra come questa questione, su cui un tempo si taceva, stia avendo sempre più visibilità. Un nuovo documentario e un programma universitario incentrato sulle battaglie dei mizrahi confermano questo trend che sfida l’egemonia ashkenazita.
Peccato ancestrale
Il nuovo documentario di David Deri, rilasciato a maggio e chiamato Peccato ancestrale, fa luce su un’altra questione trascurata nei primi anni dalla fondazione d’Israele: il modo discriminatorio con cui i mizrahi furono sistemati nelle cittadine periferiche, lontane dalle città principali e prive di opportunità di impiego. Dopo l’occupazione israeliana delle terre palestinesi nel 1948, la leadership dello stato [ebraico] era preoccupata di proteggere fisicamente i territori vuoti impedendo ai rifugiati palestinesi di farvi ritorno.
All’epoca era difficile farlo perché l’80% degli ebrei israeliani viveva nelle grandi città. Pertanto lo stato israeliano cominciò a sviluppare un piano che cercava di distribuire la popolazione nelle “città di sviluppo”. Tuttavia, pochi avevano l’intenzione di rinunciare alla vita di città per insediarsi in posti distanti e non allettanti. L’ondata di immigrati mizrahi che dagli stati arabi giungevano nell’Israele di stampo europeo fornì però negli anni ’50 una soluzione. Il professore Elisha Efrat, all’epoca uno degli urbanisti delle città di sviluppo, ha descritto i mizrahi nel documentario come poveri, ingenui e deboli: un “perfetto allineamento di stelle” per Israele che poteva ora “creare uno stato dal niente con persone che non sono niente”.
Una volta attraccati al porto di Haifa, nonostante le loro proteste, molti mizrahi furono direttamente trasferiti in queste cittadine. Secondo documenti ufficiali rivelati dal documentario, coloro che provarono a lasciarle furono messi nelle liste nere e privati di benefici sanitari e d’impiego. Ma quando invece una ondata di ebrei emigrò in Israele dalla Polonia, grosso modo nello stesso periodo, gli ufficiali governativi citati dal documentario affermarono che questi ebrei erano fatti di “differente materiale umano” e non avrebbero potuto vivere vicino ai “barbari marocchini” nelle città di sviluppo. Una nuova città fu costruita per loro a Tel Aviv. La gerarchia di oppressione fra ashkenaziti (ebrei europei), mizrahi e palestinesi d’Israele divenne così evidente.
Il documentario, lodato da molti, è stato criticato da altri perché non ha affrontato l’obiettivo principale delle città di sviluppo: impedire ai rifugiati palestinesi di ritornare nelle loro terre occupate dai mizrahi. Queste cittadine sono ancora oggi in gran parte abitate dai mizrahi rappresentando tuttora una fonte di ineguaglianza all’interno della società: qui “gli ebrei dell’est” sono trascurati e molte scuole professionali continuano ad impiegare i loro giovani in lavori poco remunerativi e privi di potere.
[La seconda parte dell’articolo qui]
*Traduzione a cura della redazione di Nena News