Continuano le proteste degli ebrei falasha a Tel Aviv. Netanyahu promette una commissione ministeriale che combatterà le discriminazioni nei loro confronti. Ma sono in pochi, tra i manifestanti, a crederci
di Roberto Prinzi
Roma, 19 maggio 2015, Nena News -Ancora una volta gli etiopi israeliani sono scesi in strada a Tel Aviv per protestare contro il “razzismo istituzionale” d’Israele. Ma questa volta, a differenza delle precedenti manifestazioni di fine aprile, inizio e metà maggio, non si sono registrati scontri con le forze di polizia. I manifestanti si sono radunati sul viale Rothshild (nel cuore della città) e, nonostante il gran caldo (40 gradi) hanno camminato per più di due chilometri terminando la loro protesta a piazza Rabin. “Quel che leva più energie e stanca è la situazione [in cui ci troviamo] non il clima” ha commentato ironicamente Adva Zimro, una delle organizzatrici.
“Le cose non sono cambiate e, pertanto, continueremo a protestare” ha detto in piazza Inbar Bugale una delle partecipanti. “Niente è stato fatto per noi per 30 anni e così vogliamo mostrare al premier [Netanyahu] che questa volta non molleremo. Anche se dovesse impegnarsi a fare qualcosa, non staremo in silenzio finché non vedremo i risultati” ha aggiunto.
Dopo le violenze del 3 maggio che causarono il ferimento di più di 40 persone – la polizia israeliana sparò anche granate stordenti, una rarità trattandosi di popolazione ebraica- il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva invitato all’unità e alla lotta contro il razzismo. E, nel tentativo di calmare gli animi, aveva deciso di incontrare la comunità etiope il giorno successivo. Un tentativo che finora non sembra aver avuto molto successo.
Le tensioni tra la comunità falasha e le forze di sicurezza erano esplose dopo che un filmato diffuso in rete aveva mostrato due poliziotti israeliani picchiare un soldato etiope nei pressi di Holon (vicino a Tel Aviv). Ma il malessere della comunità etiope ha origini più profonde ed è stato riaffermato con forza anche ieri. “Vogliamo una soluzione reale a qualcosa che va avanti da molti anni” ha dichiarato a Middle East Eye Maharta Baroukh, membro della comunità etiope-israeliana e vice sindaco della municipalità di Tel Aviv-Jaffa.
Gli etiopi sembrano essere determinati: “se Netanyahu offre una soluzione concreta alla discriminazione contro di noi, collaboreremo. Ma se [lo fa] solo per calmarci, noi non ci piegheremo” ha aggiunto Baroukh. Bibi aveva riprovato a blandire la sofferenza della comunità etiope domenica durante una cerimonia in ricordo degli etiopi ebrei morti mentre si rececavano dal Sudan in Israele. Il primo ministro ha detto due giorni fa che formerà e capeggierà una commissione ministeriale che proverà a risolvere i problemi che gravano sulla comunità dei falashim. “Noi vogliamo fatti – ha detto con il megafono Zimo rispondendo a Netanyahu – siamo stanchi di sentire solo promesse”.
Sul banco degli imputati ci sono in primo luogo le forze dell’ordine. “Un poliziotto violento deve essere rinchiuso!”, “No alla violenza, sì all’unità”, “la nazione chiede giustizia sociale” hanno scandito in ebraico i manifestanti, molti dei quali hanno sfilato incrociando le braccia dietro alle teste, come se fossero ammanettati, per protestare contro quello che definiscono “lo stato di polizia”. Ma sarebbe riduttivo leggere le proteste degli etiopi solo come manifestazioni contro la violenza repressiva del governo, o come una rifiuto generico del razzismo contro i kushim (“negri” in ebraico).
Intervistato dal Times of Israel, Yitzhak Hizkiyahu – un proprietario di un ristorante etiope vegano nel sud di Tel Aviv – sottolinea l’aspetto politico della loro lotta. Sebbene queste proteste siano iniziate in risposta al video del soldato picchiato dalla polizia – ha spiegato Hizkiyahu - la radice del problema è molto più profonda: “non è solo la polizia. C’è discriminazione nel ministero dell’istruzione, del welfare e dei servizi sociali, così come in quello della difesa. Il problema è istituzionale”. Gli attivisti scesi in piazza ieri hanno perciò chiesto al governo di migliorare la loro condizione economica ed educativa minacciando di bloccare nuovamente le strade in futuro se le loro istanze dovessero rimanere inascoltate.
Secondo la tradizione ebraica i falasha sarebbero i frutti dell’unione tra re Salomone e la Regina di Saba. Minacciati dal governo etiope nel 1977-1979 essi emigrarono verso il Sudan. Da qui il governo di Israele decise di trasportarli nel proprio territorio con un ponte aereo, in tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè e Operazione Salomone.
Attualmente in Israele vivono circa 135mila Falasha (50mila dei quali nati nello stato ebraico) che continuano ad avere grosse difficoltà di inserimento nella società ebraica. Più della metà di loro vivono sotto la soglia della povertà e solo metà prendono il diploma di scuola superiore. L’integrazione dei giovani avviene nelle scuole, ma principalmente nelle Forze Armate. Le autorità sono accusate di aver attuato una politica di drastica “ebraizzazione” degli etiopi secondo i canoni di Israele, ignorando la lingua e la cultura Falasha.
Nel 2013, Israele ha ammesso per la prima volta che le immigrate ebree etiopi hanno avuto iniezioni di controllo delle nascite, spesso senza il loro consenso. Il governo aveva negato in un primo momento negato la pratica, ma il direttore generale del ministero della salute israeliano aveva subito ordinato ai ginecologi di fermare la somministrazione dei farmaci. I sospetti furono sollevati dal giornalista investigativo del quotidiano israeliano HaAretz, Gal Gabbay. Gabbay aveva intervistato diverse donne provenienti dall’Etiopia nel tentativo di scoprire il motivo per cui i tassi di natalità nella comunità erano crollati. Nena News
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