Amman torna a dire di voler procedere con lo scambio di prigionieri, purché il pilota al-Kasasbeh sia ancora vivo. Cresce il timore di instabilità in un paese fondato sulla divisione del potere tra monarchia e tribù. Gli Usa non commentano: l’alleato giordano è ancora strategico.
di Chiara Cruciati
Roma, 2 febbraio 2015, Nena News – Jihadi John ha colpito di nuovo: ieri mattina il video con il brutale messaggio dell’Isis è stato recapitato al Giappone. Il giornalista freelance Kenji Goto è stato ucciso, un settimana dopo l’altro cittadino giapponese, Haruna Yukawa, giustiziato dallo Stato Islamico dopo il rifiuto del Giappone a pagare un riscatto di 200 milioni di dollari. A nulla sono valsi gli sforzi diplomatici di Tokyo e Amman, che ora trema per la sorte del suo pilota.
Questa mattina sono giunte le prime reazioni del governo giapponese: il premier Shinzo Abe ha previsto un ruolo militare più attivo del suo paese, relegando in un angolo il tradizionale “pro-pacifismo attivo” del Giappone. A smuovere le acque sono state le difficoltà diplomatiche incontrate dall’intelligence giapponese, a cui Abe vuole mettere una toppa. In particolare, il primo ministro punta ad una nuova legislazione che annulli il divieto di prendere parte a operazioni militari all’estero nel caso paesi alleati siano sotto attacco, un divieto nato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Accanto ad un maggiore ruolo militare, Abo ha parlato anche dell’intenzione di incrementare gli aiuti umanitari (cibo e medicine) a quei gruppi di opposizione attivi in Medio Oriente e ai paesi minacciati dall’avanzata dell’Isis. Pochi giorni prima del primo video pubblicato dagli islamisti con i due ostaggi giapponesi, Tokyo aveva messo sul piatto 2,5 miliardi di dollari al fine di contribuire alla stabilità di un’area del mondo strategica per gli interessi energetici giapponesi.
Resta sulla graticola la Giordania: nel video della morte di Goto, il miliziano noto come “Jihadi John” non fa parola del pilota giordano Muath al-Kasasbeh, catturato dai miliziani del califfato in Siria a dicembre dopo che il suo jet da guerra era caduto. Amman non nasconde l’angoscia per la sorte del giovane militare: ieri il governo è tornato a chiedere al califfo la prova che al-Kasasbeh sia ancora vivo per poter procedere allo scambio con la prigioniera qaedista Sajida al-Rishawi, in carcere in Giordania dal 2005 per la partecipazione ad una serie di attacchi suicidi che provocarono la morte di 60 persone.
La Giordania si era detta da subito favorevole allo scambio pur di riavere indietro vivi il pilota e il giornalista giapponese ma i due ultimatum dell’Isis erano scaduti senza che venisse fornita la prova alle autorità giordane che i due ostaggi fossero ancora in vita. “Siamo ancora pronti a consegnare la prigioniera al-Rishawi in cambio del ritorno del nostro figlio e eroe”, ha ripetuto ieri Mohammad al-Momani, portavoce governativo. Dai servizi segreti non arrivano conferme, nessuna sa dire se al-Kasasbeh sia ancora in vita o meno.
E se l’Isis gioca con i governi arabi e occidentali, mostrando ancora una volta l’enorme potere esercitato e rafforzando il suo messaggio di propaganda, ad Amman sperano che lo stallo si sblocchi presto: cresce l’insofferenza tra i media e l’opinione pubblica, minacciando seriamente la fragile stabilità di un paese che sembrava essere passato indenne dall’ondata di rivolte del mondo arabo, nonostante la quasi totale assenza di riforme interne. I primi segnali di irritazione sono apparsi mercoledì notte quando circa 500 manifestanti si sono ritrovati sotto il palazzo reale intonando slogan contro re Abdallah.
Buona parte dei giordani ritiene il governo responsabile di averli trascinati in una guerra che non gli appartiene, una guerra al terrore che poco ha a che vedere con Amman. Non è così: la Giordania, dopo l’Arabia Saudita e la Tunisia, è il paese dal quale proviene il maggior numero di jihadisti stranieri membri dell’Isis (che prima o poi tornano a casa) e il favore verso il califfato – seppur ancora poco visibile – cresce nel sottobosco dei gruppi salafiti o più radicali. A ciò va aggiunto il fatto che la Giordania è un paese povero di risorse idriche e energetiche (a differenza dei vicini da cui in parte dipende), con un conto costantemente in rosso su cui pesa ora anche il milione e mezzo di rifugiati siriani e la crescita del tasso di inflazione dovuto ai profughi “consumatori”.
A risentirne potrebbe essere proprio la tradizionale stabilità di un paese strategico per la sua posizione (tra Siria, Iraq, Arabia Saudita e Israele, con cui ha siglato la pace nel 1994) e per gli interessi occidentali nella regione. Gli Usa hanno sempre considerato la monarchia hashemita una delle colonne portanti dell’agenda politica di Washington in Medio Oriente: solo nel 2014 è piovuto nelle casse di Amman un miliardo di dollari in aiuti economici e militari.
Gli Usa guardano alla Giordania come alla zona cuscinetto tra Israele e il resto del mondo arabo e tra i paesi sunniti del Golfo e l’asse sciita Damasco-Teheran. Con lo scoppio della guerra civile siriana e l’immediato sostegno garantito alle opposizione moderate, Amman è stata per l’Occidente la zona di contenimento di un’eventuale espansione della crisi siriana, un ruolo polverizzato dall’avanzata dell’Isis nella regione.
Il timore di un contagio dei settarismi esterni dentro il paese o l’infiltrazione dell’Isis o di gruppi vicini al califfato potrebbe fare da miccia alle tensioni rimaste latenti per decenni e intensificatesi negli ultimi anni, quelli della guerra civile siriana. Tensioni che prima re Hussein e poi suo figlio Abdallah hanno saputo tenere a bada con il pugno di ferro e dando vita ad una rete di potere ramificata, gestita dall’alto ma distribuita tra le varie tribù. Potere, poltrone e denaro in cambio dell’assenza di caos. Nena News