Tre soldati italiani, vittime di un attentato avvenuto ieri mattina, sono in gravi condizioni, ma non in pericolo di vita. Il governo iracheno, intanto, promette riforme “nei prossimi giorni”, ma in piazza continua a sparare: 15 manifestanti uccisi solo nel week end
di Roberto Prinzi
Roma, 11 novembre 2019, Nena News – Tre militari italiani sono in gravi condizioni, ma nessuno è in pericolo di vita. A dirlo ieri su Rai News 24 è stato il comandante interforze Nicola Lanza de Cristofori, commentando l’attacco esplosivo avvenuto ieri mattina in Iraq al contingente militare italiano che ritornava in base alla fine di una missione. Al più grave dei feriti è stata amputata una gamba, un altro ha subito gravi lesioni interne mentre il terzo ha riportato danni al piede. I feriti sono stati evacuati dal luogo dell’esplosione con elicotteri Usa e sono stati trasportati nell’ospedale americano di Baghdad dove stanno ricevendo le cure.
Al momento non è chiaro dove sia avvenuto l’attacco. Lo Stato Maggiore della Difesa, infatti, non ha rilasciato dettagli: con il passare delle ore sembra essere meno credibile l’ipotesi Kirkuk come avevano riportato inizialmente i media italiani. Secondo alcuni fonti l’esplosione sarebbe avvenuta a Palkana (a metà strada tra Erbil e Kirkuk), altre riferiscono di Sulemanya (nel Kurdistan iracheno) o Makhmour, nel nord dell’Iraq. Più chiara è invece la dinamica di quanto accaduto: un ordigno esplosivo rudimentale, nascosto sotto terra, è stato attivato al passaggio del team misto di Forze speciali italiane. Gli italiani – due dei feriti sono effettivi al nono reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin dell’Esercito e tre appartengono al Gruppo operativo incursori Comsubin della Marina militare – stavano svolgendo ufficialmente attività di addestramento in supporto delle forze irachene impegnate nella lotta al “califfato” islamico (Isis). Nessun gruppo ha finora rivendicato l’attacco, ma le modalità con cui è avvenuto ricordano da vicino quelle degli attentati compiuti da ciò che resta dell’organizzazione jihadista. La procura di Roma ha intanto aperto un fascicolo per “attentato con finalità di terrorismo e lesioni gravissime”. Non deve sfuggire che l’esplosione di ieri è giunta a due giorni dal 16esimo anniversario dell’attacco di Nassiria (sud Iraq) in cui furono uccisi 19 militari italiani.
Immediata e scontata la solidarietà verso i militari feriti da parte del governo. Se il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha espresso “la più profonda vicinanza alle famiglie e ai colleghi dei militari coinvolti”, il titolare del dicastero degli Esteri Luigi di Maio su Facebook ha anche precisato che “i nostri ragazzi erano impegnati in attività di formazione delle forze di sicurezze irachene impegnate nella lotta all’Isis”. Un “messaggio di solidarietà per i militari rimasti feriti” è stato fatto pervenire al ministro della Difesa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
A prendere una posizione forte contro la presenza italiana in Iraq è invece il Sindacato dei militari che chiede di “ritirare tutti i contingenti militari italiani dalle missioni all’estero perché l’impegno delle forze armate, in questo modo, è chiaramente contrario all’articolo 11 della Costituzione”. “Esprimiamo – ha aggiunto il sindacato – vicinanza ai colleghi feriti e alle loro famiglie ma non possiamo tacere di fronte all’ipocrisia di chi rappresenta le istituzioni e continua a definire la guerra combattuta dai nostri soldati all’estero come ‘missioni di pace’.”
Ma ieri è stata l’ennesima giornata di sangue in Iraq anche in altre aree del Paese. Le forze di sicurezza irachena hanno infatti ucciso altri tre manifestanti anti-governativi, dal primo ottobre in strada nella capitale Baghdad e nei maggiori centri a maggioranza sciita contro la corruzione, la mancanza di lavoro e servizi e che chiedono con forza un cambiamento radicale del sistema politico. Le vittime di ieri portano a 15 il bilancio dei dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine soltanto nel week end (9 a Baghdad e 3 nella città meridionale di Bassora). Soltanto perché in un conteggio ufficiale effettuato dalla Commissione diritti umani del parlamento iracheno, infatti, le vittime complessive delle proteste sono finora 319 (oltre 12.000 i feriti). Una situazione che si fa sempre più drammatica ogni giorno che passa. “Tutto ciò si sta trasformando in un bagno di sangue” ha protestato ieri Amnesty International con la sua direttrice regionale Heba Morayef. “Le promesse del governo di riforme e indagini – ha aggiunto – cadono nel vuoto quando le forze di sicurezze continuano a sparare e uccidere i dimostranti”.
Sabato il premier Abdel Abdul Mahdi è tornato a promettere per i “prossimi giorni” riforme elettorali e costituzionali. Tuttavia, come sempre, non ha fornito alcun dettaglio di queste misure. E se da un lato ha provato a fare il pompiere ringraziando i manifestanti “per aver aiutato a fare pressione sui gruppi politici e il governo”, dall’altro li ha avvertiti che “si deve tornare alla vita normale” perché solo così saranno ascoltate le loro “legittime richieste”. Il punto che non comprende (o finge di non comprendere) Abdel Mahdi è che proprio alla “vita normale” gli iracheni non vogliono tornare: una vita di stenti con in media solo 6 dollari al giorno, con tassi di disoccupazione alle stelle e mancanza di futuro per i giovani.
I leader iracheni, intanto, hanno concordato ieri che le “imminenti” riforme elettorali daranno maggiore spazio ai giovani e romperanno il monopolio dei partiti politici che hanno dominato le istituzioni dal 2003, da quando cioè l’Occidente, guidato dagli Usa di Bush junior, ha deciso di dare inizio alla guerra contro il presidente iracheno Saddam Hussein con la scusa delle “armi di distruzione di massa” (mai trovate perché inesistenti). A prendere parola è anche la Missione di assistenza delle Nazioni Unite per l’Iraq (Unami) che ha proposto una serie di passaggi per uscire dalla crisi. In primo luogo “massima moderazione nella gestione delle proteste”, ovvero fine dell’utilizzo di pallottole vere e divieto di uso improprio di strumenti non letali come i gas lacrimogeni che hanno ucciso finora numerosi dimostranti perché sparati ad altezza uomo. Oltre all’implementazione di riforme costituzionali ed elettorali e al rinvio a giudizio di coloro che sono accusati di corruzione, l’Unami ha chiesto anche il rilascio dei dimostranti e l’apertura di una indagine sul rapimento di attivisti e dottori che, denunciano le organizzazioni umanitarie locali, sono stati prelevati dalle forze di sicurezza e dai gruppi armati e di cui non si conosce ancora il loro destino. Nena News